Un film sulla morte, sulla paura e sulla paura della morte. Per aprire il concorso la Mostra di Venezia si è affidata a quel Noah Baumbach che alcuni anni fa aveva stregato il Lido con ‘Storia di un matrimonio’. Un matrimonio c’è anche qui ma quella che era una vicenda sostanzialmente intima si trasforma in qualcosa di molto più ampio affrontando le angosce e le idiosincrasie di un’intera società, una meditazione sulla prosperità occidentale e il suo malcontento, le sue ansie, la sua sazietà intellettuale.
Ambientato in una città universitaria immaginaria, il libro utilizzava un'esplosione tossica realmente accaduta per prendere di mira con grande ironia il consumismo, il mondo accademico della cultura pop, le informazioni inaffidabili, la paranoia, la dipendenza dalle pillole e il talento dell'uomo per la catastrofe ambientale. Ebbene, niente è scomparso e alcuni di questi bersagli si sono trasformati in mostri ancora più spaventosi, soprattutto nel nostro mondo postpandemico.
Il film si divide in tre atti. Il primo affronta la quotidianità di una famiglia: Jack, il padre, docente universitario di una bizzarra disciplina legata a studi hitleriani; Babette, la madre insegnante nella chiesa parrocchiale e quattro figli adolescenti, di cui uno solo della coppia mentre gli altri derivano da precedenti rapporti dei due, entrambi al quarto matrimonio. Vediamo le lotte per portare i bambini a scuola, fare la spesa, andare al lavoro, essere un buon partner, cercare di mantenersi in salute, il tutto circondati da dati e informazioni esterne provenienti da TV e radio. Ma già qui qualcosa non quadra: la donna ha i sintomi di quella che sembra essere una demenza precoce e pare anche dipendente da un misterioso farmaco. Il secondo atto descrive un'evacuazione della comunità sulla scia di un disastro che lascia un'enorme nuvola tossica che si diffonde minacciosamente nell'aria, evento che espone Jack a tossine che potrebbero ucciderlo in un paio di decenni mentre terzo rappresenta il momento conclusivo in cui le varie strade che il film ha tracciato si intersecano tra di loro.
DeLillo a metà degli anni '80 intravide una marea di indizi sul mondo che stava nascendo e ora che sono passati 37 anni, abbiamo la certezza che molto di ciò che aveva intuito si è spostato in primo piano: l'avvelenamento della qualità della nostra vita, il senso di terrore spirituale che ribolle sotto il sogno americano, la riconfigurazione di ciò che significa una famiglia nell'era del divorzio e l'emergere di una nuova insidiosa cultura farmaceutica in cui le persone tentano di scacciare la loro disperazione. ‘White noise’ affronta il concetto di morte attraverso l’idea apparentemente impensabile che l'unico modo per vivere davvero la vita è sapere che sta per finire svelando le strategie e le difese che spesso ci inventiamo per rendere accettabile questa realtà mostrando personaggi che ne hanno paura ma la tengono come unica garanzia di certezza nelle loro vite.
Ambientato in un'America dai colori vivaci, progettata per consumatori felici e brillanti (di cibo, pillole e istruzione) ma abitata da persone confuse e spaventate, il film di Baumbach dipinge l'immagine di un mondo scomposto tra luce ed ombra dal momento che il filo conduttore della narrazione è una paura che consuma tutto. Per farlo però spesso mette troppa carne al fuoco e quello che poteva essere un affascinante mix di ironia, paranoia e speranza americana si diluisce in una narrazione strabordante e a tratti inutile. E’ vero, siamo creature fragili circondate da un mondo ostile alla continua ricerca di una speranza che non riusciamo a trovare ma alla fine ‘White Noise’ è colpevole di essere proprio ciò che critica: ovvero, troppo.
IL COMMENTO
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