È tornato il cappello. È tornata la frusta. È tornata la paura dei serpenti. E - almeno all'inizio del film - anche la giovinezza. L'iconico archeologo di Harrison Ford è di nuovo sugli schermi con ‘Indiana Jones e il quadrante del destino’ recuperando credibilità dopo l’episodio del ‘teschio di cristallo’, davvero poco soddisfacente, grazie ad una storia nostalgica e vecchio stile, una corsa spensierata in giro per il mondo che mette ancora una volta l'intrepido avventuriero contro i nazisti.
Tutto inizia infatti nel 1944 quando – debitamente ringiovanito grazie ai prodigi della grafica moderna – Indiana tenta di appropriarsi della lancia di Longino, usata per ferire il costato di Gesù dopo che è stato crocifisso, in mano al tedesco Jürgen Voller, scoprendo però che si tratta di un falso clamoroso. Nello stesso tempo mette gli occhi sull'Antikythera, ingranaggio d'oro che è la metà di un quadrante creato da Archimede nel terzo secolo a.C. Poi il film si sposta nel 1969, dove è lo stesso Indy adesso ad essere una reliquia: un vecchio in pensione che vive in uno squallido appartamento di New York, costretto a svegliarsi con ‘Magical Mystery Tour’ dei Beatles che i suoi vicini hippie suonano a stecca, versandosi il whisky nel caffè istantaneo mentre dà un'occhiata ai documenti per il divorzio.
A scuoterlo da questo torpore è la figlioccia Helena che non vede da diciotto anni, figlia di Basil Shaw, professore di Oxford, suo amico e anch’egli archeologo, che già abbiamo visto con lui nel prologo del film. La giovane sta cercando disperatamente di riprendere il lavoro che il padre defunto aveva interrotto: recuperare quel quadrante di Archimede che Basil credeva potesse trovare "fessure nel tempo", la possibilità cioè di viaggiare da un’epoca all’altra. In realtà, con quel manufatto vorrebbe solamente risolvere i suoi debiti di gioco vendendolo al miglior offerente. I due si ritroveranno contro ancora l’ex-nazista Jurgen Voller che sotto falsa identità ha aiutato il governo statunitense a vincere la corsa per la Luna.
Nel 1977 George Lucas con ‘Guerre stellari’ ci fece attraversare lo specchio di quella che sarebbe diventata la nostra cultura cinematografica fantasy ma è stato Steven Spielberg, girandone la sceneggiatura de ‘I predatori dell’arca perduta’, a introdurre il DNA strutturale di una macchina d’evasione perfetta, con ritmo e azione senza un attimo di tregua. Questo significa che ‘Indiana Jones e il quadrante del destino’ non arriva solo dopo quattro precedenti film di questo franchise ma dopo altrettanti decenni di costosa decadenza dell'azione hollywoodiana, se pensiamo alla serie "Fast and Furious", a ‘Mission: Impossible’ e ‘Terminator’, a ‘Lara Croft’ e ‘Transformers’ che devono tutte un debito sconfinato all’estetica dei ‘Predatori’.
Qui Spielberg e Lucas sono ancora a bordo come produttori esecutivi ma le redini della regia passano a James Mangold che dimostra di aver ben studiato Indiana Jones di cui ripropone molti clichè: i nazisti, un ragazzino orfano, una coprotagonista esuberante, linee rosse che tracciano percorsi di aerei su una mappa e un folle viaggio che ci porta attraverso la Germania nazista, New York, Tangeri e Siracusa. E se è una storia la cui attendibilità è di poco sopra lo zero, dal punto di vista spettacolare c’è quello che ci si aspetta, tutti i tratti distintivi della serie sono lì, amorevolmente conservati come tesori archeologici, vedi un ingegnoso sistema di grotte con trappole esplosive o un inseguimento attraverso una parata in onore degli astronauti dell'Apollo con Indy che salta su un cavallo della polizia e con lui fugge nella metropolitana. Ma c'è anche un po' di tristezza e rimpianto per un uomo fuori dal tempo che osserva le rovine della propria vita: un tono a tratti insolitamente oscuro per un blockbuster come questo.
Alla fine, ‘Indiana Jones e il quadrante del destino’ non aggiunge nuovi livelli alla leggenda ma piuttosto perfeziona quelli che già conoscevamo. Come la reliquia al centro del film qui l’obiettivo è ripristinare il pieno valore di un'icona cinematografica prima che si allontani per sempre verso il tramonto. Da questo punto di vista, il solo ascoltare la colonna sonora di John Williams, l'ennesima variante dell'eroismo e della teatralità dell'originale fa sentire a chiunque abbia una certa età come tutto sia momentaneamente a posto. È divertente e stravagante anche se personalmente non ho la più pallida idea di cosa siano i codici matematici alessandrini. Non importa. Ma quella fessura temporale che permette di andare da un’epoca all’altra, in ‘Indiana Jones e il quadrante del destino’ finisce per essere una metafora – non saprei dire quanto volontaria o quanto inconscia -, dal momento che il film tornando indietro nel tempo completa la nostra storia d'amore con questo straordinario personaggio che ci ha accompagnato attraverso più di quattro decadi, finalmente pronto ad appendere definitivamente il cappello al chiodo. Grazie Indy, è stato un bel viaggio.
IL COMMENTO
Un respiro per non dimenticare, ecco perché Breathe ci può aiutare
Blazquez, basta mezze parole: è il momento di dire tutta la verità