Il cinema contemporaneo ha trovato diversi modi per mettere in scena un format abusato come il genere 'giallo': Rian Johnson ad esempio ne ha esplorato il lato giocoso, eccentrico e sociale con 'Knives Out' e il suo sequel 'Glass Onion' mentre Thomas Hardiman lo ha portato fuori dal suo habitat naturale ambientando 'Medusa Deluxe' all'interno di un concorso per parrucchieri. Chi rimane romanticamente legato con amore e rispetto alla tradizione è Kenneth Branagh che sposa le forme classiche del mistero affidandosi ancora ad Agatha Christie e al suo personaggio feticcio, l'investigatore belga Hercule Poirot, di cui con 'Assassinio a Venezia' porta sullo schermo il terzo capitolo di una saga iniziata sei anni fa dove per la prima volta non si confronta con una precedente traduzione cinematografica come era accaduto per 'Assassinio sull'Orient Express' (Sidney Lumet, 1974) e 'Assassinio sul Nilo' (John Guillermin, 1978).
Mentre la sterminata bibliografia di Christie contiene abbastanza enigmi da riempire diverse carriere di registi, in realtà non c'è un terzo romanzo con un titolo altrettanto famoso e immediatamente riconoscibile. Così Branagh ha deciso di lavorare contemporaneamente su due registri antitetici – il poliziesco e il gotico – affidandosi ad un romanzo uscito in Italia come 'Poirot e la strage degli innocenti' ma il cui titolo originale è 'Halloween party' proprio perché ambientato la notte di Halloween del 1947. In più trasporta l'ambientazione dall'Inghilterra in laguna dove Poirot si è ritirato dal suo lavoro a favore di una vita tranquilla che prevede pochi contatti con l'esterno. È costantemente bombardato da richieste di occuparsi di nuovi casi ma una vita passata ad osservare la brutalità di cui sono capaci gli esseri umani lo ha lasciato stanco e misantropo.
Dal momento che senza lo stimolo intellettuale derivante dalla risoluzione dei crimini deve trovare altri modi per mantenere il cervello sveglio accetta l'invito di una vecchia amica scrittrice di romanzi gialli a partecipare ad una seduta spiritica nel palazzo di una nota cantante lirica per screditare una famosa medium chiamata a contattare lo spirito della figlia della padrona di casa che si è suicidata mesi prima gettandosi da un balcone nel canale sottostante. Ma la serata va decisamente storta e i vari partecipanti si ritroveranno a confrontarsi con ogni specie di orrori mentre Poirot deve risolvere un mistero che unisce tutti in una allarmante danza macabra.
'Assassinio a Venezia' ruota intorno a due protagonisti: il primo ovviamente è l'investigatore sul cui carattere Branagh continua un lavoro di approfondimento che aveva già portato avanti nei film precedenti mostrando una maggiore vulnerabilità che trasforma un personaggio tradizionalmente pittoresco, egocentrico e capriccioso in un uomo maturo che cerca di isolarsi dalla propria fama e condurre una vita tranquilla costretto a confrontarsi con quello che potrebbe essere l'ultimo enigma della sua carriera. L'altro ovviamente è la città con i suoi canali, le calli tortuose, l'eleganza fatiscente, il fascino senza tempo e l'inquietante bellezza.
Se le prime due uscite di Branagh nei panni del detective di Agatha Christie erano gialli classici, 'Assassinio a Venezia' come suggerisce il titolo originale, 'A haunting in Venice' (Un'infestazione a Venezia), è costruito sull'eredità delle storie di fantasmi e su come e perché scegliamo di crederci. Lo fa riprendendo i tanti modi in cui il dolore, il trauma e la perdita sfidano anche il cervello più razionale e la maniera in cui le nostre scelte e il nostro passato a volte finiscono per perseguitarci in maniera molto più efficace di quanto potrebbe fare qualsiasi spettro soprannaturale. E mentre Poirot svela i fili dell'inganno il mistero si approfondisce conducendoci attraverso un labirinto di mistificazioni, una rete di cripte nascoste, leggende metropolitane e inaspettati tradimenti che gli fanno comprendere che quando ci si concentra troppo sul passato e sui morti si perdono di vista il presente e i vivi.
Un aspetto del film che lo differenzia rispetto ai suoi due predecessori è che beneficia dell'assenza di veri e propri divi che comportano sempre il rischio di divorare i propri personaggi. Qui non c'è nessuna star (l'unica è forse Michelle Yeoh ma solo perché ha vinto l'Oscar con 'Everything Everywhere All at Once'), il che va a vantaggio di un migliore equilibrio nella galleria dei protagonisti ciascuno dei quali è ovviamente un sospettato. Così, alla fine, nonostante i suoi difetti, questa celebrazione della macabra magia di Halloween, con l'atmosfera funebre e superstiziosa che crea Branagh per far emergere il razionalismo di un Poirot che in un certo senso ha dedicato tutta la sua vita a parlare coi morti per trovare la verità, finisce per essere superiore al precedente 'Assassinio sul Nilo' anche se l'Orient Express resta il risultato migliore di questo franchise.
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IL COMMENTO
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