Il titolo si rifà ad una corrente architettonica nata negli anni Cinquanta del secolo scorso in Inghilterra caratterizzata da edifici dalla massa compatta e geometrica influenzati dal Bauhaus. ‘The brutalist’ di Brady Corbet, dieci nomination agli Oscar e Leone d’argento a Venezia per la miglior regia, aspira alle stesse dimensioni monumentali e imponenti: dura più di tre ore e mezza affrontando temi come l'immigrazione, le enormi sfide architettoniche, la tossicodipendenza, la fondazione dello Stato ebraico e il capitalismo.
Un complesso racconto d'epoca
Diviso in due parti, è un complesso racconto d'epoca che inizia nel fuoco e nel tumulto della fine della seconda guerra mondiale, quando l'architetto ungherese László Tóth (interpretato da Adrien Brody) riesce a scappare in America ma è costretto a lasciare la moglie e la nipote. Arrivato a New York, il rifugiato ebreo, che durante il viaggio ha iniziato ad assumere eroina, sembra disperato e disorientato e incontra un'America tutt’altro che accogliente. Le cose migliorano quando si trasferisce in Pennsylvania da un cugino che possiede un negozio di mobili. Invitato dal figlio di un ricco magnate a trasformare la sala di lettura di una villa in una biblioteca personalizzata, Tóth mette a frutto tutte le sue capacità ma il proprietario della casa, Harrison Lee Van Buren, non ama le sorprese e quando la vede si infuria. Quella rabbia però non dura e una volta placata cerca Tóth e gli propone di lavorare insieme a un progetto monumentale per la comunità locale: un edificio in grado di combinate un auditorium, una palestra, una biblioteca e una cappella invitandolo a trasferirsi nella sua villa dove la relazione tra i due uomini passa da professionale a personale aiutando l’architetto a farsi raggiungere dalla moglie e dalla nipote. Ma non tutto andrà per il verso giusto.

Grande visione e scelte audaci
‘The brutalist’ è un film di grande visione e scelte audaci sull'esperienza degli immigrati nell'America a metà del secolo scorso, sulla lotta artistica, la diaspora ebraica, l'ambizione e il rimpianto e su cosa costituisca una vita significativa. Un'epopea strutturata sul trauma del dopoguerra, il capitalismo, la disparità di classe, il razzismo, l'abuso di sostanze, la promessa di un futuro migliore e l'illusione di libertà all'interno del sogno americano degli anni '50. Parla del monumentale risultato di far nascere l'arte nel mondo e del suo significato che non può essere afferrato senza comprendere la propria storia, quelle esperienze vissute che dettano il modo in cui ci avviciniamo al mondo e le forze invisibili che ci paralizzano e ci allontanano ulteriormente dalla nostra destinazione prevista.
Meglio la prima parte della seconda
Per dire tutto questo però tre ore e mezza sono francamente troppe. La prima metà del film è la parte migliore, quando ci vengono mostrate le difficoltà di László nel riuscire a farcela, la sua visione artistica e la schiacciante realtà di essere un outsider in America. C'è una tensione autentica mentre si muove in un mondo che è allo stesso tempo affascinante e crudele, sprezzante e profondamente sospettoso nei suoi confronti. Dopo però la storia comincia a divagare, una narrazione avvincente si trasforma in una serie di digressioni egoistiche, piene di conversazioni ripetitive, sottotrame inutili ed eccessi artistici.
Corbet progetta il 'Sogno americano' e poi lo demolisce
Ciò non significa che sia un brutto film o un fallimento anche perché in definitiva è una saga americana che arriva al lato oscuro su cui sono stati costruiti gli Stati Uniti nella cui storia l'avidità è l'unica costante: le persone al potere ci arrivano costruendo la loro ricchezza sulle spalle di individui con uno status socioeconomico inferiore strappando loro via la scala del successo dopo che ce l'hanno fatta. Corbet progetta il ‘Sogno americano’ e poi lo demolisce, illumina le fondamenta marce su cui sono costruiti certi ideali americani e il senso di ambizione auto-annientante che lo definisce. In definitiva, un'opera colossale e ambiziosa ma anche una maratona autoreferenziale dove lo stile a volte travolge la sostanza. Un film che sembra lungo solo per il gusto di esserlo, innegabilmente ben fatto, che richiede pazienza ma non sempre la ricompensa.
IL COMMENTO
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