E' morto a Londra a 58 anni Gianluca Vialli, simbolo della Sampdoria e del calcio italiano. Da cinque anni lottava con un brutto male. In maglia blucerchiata, dal 1984 al 1992, ha vinto Coppa delle Coppe 1990, Scudetto 1991 (capocannoniere), tre edizioni della Coppa Italia (1985, 1988 e 1989) e la Supercoppa d’Italia 1991. Sfiorò la Coppa dei Campioni 1992 proprio a Londra, nella città dove si sarebbe trasferito e dove ha chiuso la sua avventura. Partito dalla Cremonese, ha giocato anche per Juventus (Coppa Campioni 1996) e Chelsea (Coppa Coppe 1998). In Nazionale ha partecipato ai Mondiali 1986 e 1990 e all’Europeo 1988. Ha vinto, da capodelegazione, l’Europeo 2021. Nel 2019, il suo ultimo grande sogno, aveva promosso invano un'iniziativa per acquistare la Sampdoria e diventarne presidente.
I funerali di Gianluca Vialli si terranno lunedì a Londra in forma strettamente privata. Il campione sarà sepolto nella stessa capitale inglese.
Finisce sempre così, con la morte. Prima però c'è stata la vita, l'emozione e la paura, gli sparuti inconsistenti squarci di bellezza. Questa era la Grande Bellezza, la tua è stata la Bella Stagione. Che finisce in inverno. Suona così l’ultima volta il tuo carillon. Ora che il recupero è scaduto, ricompari bianco rassegnazione come la tua divisa da gioco, sotto gli aghi freddi della pioggia imperterrita, davanti al luccichio degli ottusi ottoni della banda nazionale svizzera, non eri tu e lo sapevi, su quel prato verdissimo. Era di maggio, il tuo mese della fortuna e della sfortuna, pregavi che quella sera passasse veloce, sapevi già come sarebbe finita la partita. E' passata veloce anche la tua esistenza, i tuoi giorni del vino e delle rose, come una giovinezza che era già ricordo e ora diventa memoria. E questo commiato che addolora scrivere, le lettere van giù come la commozione per quella che è stata la tua avventura, per chi ha avuto il privilegio di seguirla da vicino e lo paga adesso con la pena di piangerti, troppo troppo presto, dannazione. Oh nostro adorato bandolero stanco, stanotte piangeremo pensando a te, c'è un po' della nostra vita nella tua vita che se ne va.
Poche ore prima di quella corsa rassegnata al Wankdorf, ero andato a rivedere un altro carillon, quello della Torre dell'Orologio. Ogni ora al canto del gallo le statuine si muovono, il giullare e gli orsi e il cavaliere, sotto gli occhi del vecchio barbuto, mi pare di ricordare anche lo scheletro con la clessidra, ma è una fallacia del dolore, perché l'ultimo tuo granello è passato nella strozzatura del vetro, e siamo tutti qui disperati, a mio padre nella sua ultima primavera non avevo detto quel che avevo saputo perché stava andandosene anche lui e non volevo rattristarlo ancor più, sono riuscito a nasconderglielo, ora chissà la sua faccia quando ti vede arrivare, non si sarà ancora ripreso dall'incontro con Sinisa. Quanto ci avremmo soffiato ancora in una vela annerita, per farti navigare ancora.
Sono stati una goccia dopo goccia questi anni, da quando ci dissero sottovoce che non stavi bene, e all'improvviso si spezzò lo specchio e i mille e mille pezzi divennero ricordi taglienti, nella speranza di un'altra delle tue rovesciate. Ne abbiamo avuto così di occasioni per pensare, per sperare, per pregare. Chiudevamo gli occhi per rivederti invincibile. Riascoltavamo un altro carillon: abbi voglia di un giorno ancora, la tua vecchiaia verrà da sola. Ma tu dicevi cose come “So che non morirò di vecchiaia, spero solo di non morire prima dei miei genitori e di portare le mie figlie all'altare” e il cuore si smarriva in mezzo all'infinito del niente, del senso senza senso.
Eri arrivato scambiandoti di posto con Chiorri e già questo vuol dire qualcosa, vuol dire tutto forse. Te ne sei andato da qui il giorno in cui lui dava l'addio al calcio, eppure ce ne accorgemmo solo quei pochi che avevamo sempre pensato che Alviero fosse te da giovane. In mezzo, ci sono stati gli anni in cui da ragazzi ci scoprimmo adulti, senza averne alcuna voglia né curiosità. Diventasti presto il giovane esploratore in calzoncini corti che tira l’allarme e salva la ferrovia. Il 3 luglio ’85 danzasti quel balletto da flipper tra i difensori campioni del mondo, poi quel gol per andarti a prendere il primo lampo giallo sul verde. Ci sarebbe bastato quello, invece era solo l’inizio. Allacciammo le cinture senza sapere, senza immaginare, staccando l'ombra da terra. Già. Era la nostra giovinezza, mesi che valevano anni, anni che valevano decenni, tutto così intenso, tutto così irreale, il cielo sopra le nubi è una memoria magnetica, lì tutto è rimasto impresso, come sui sali d'argento delle fotografie, del resto sarebbe insensato che quel che c'è stato una volta non ci sia mai più. E infatti.
“A me basta l’impossibile” diceva il Caligola di Camus. Infatti Carmelo Bene ti adorava. Per noi eri quello che rendeva semplice l’impossibile, che riannodava i fili strappati del reale, gettava in aria i pezzi del puzzle che op-là ricadeva a terra completato. Quando tutto sembrava perduto, da un angolo nascosto spuntavi tu: da Jena a Bucarest, da Malines a Montecarlo fino a Göteborg, e poi macché le luci, diciamo pure la luna del pomeriggio accesa a San Siro il 5 maggio 1991. Eravamo arrivati in treno milleporte appunto sulla luna, finta a Ferri e poi a Zenga e poi capriola, dopo la corsa più bella di sempre, pareva facile giuoco ma solo tu potevi, ed eccoti sospeso in aria a testa in giù, una smorfia come un sorriso, un sorriso come una smorfia, la marachella perfetta. Fuori dallo stadio nel silenzio dell'incredulità quell'urlo di uno della mia banda: "Oh ragazzi vi rendete conto? Abbiamo vinto lo scudetto!". E poi tutti a piangere, lacrime dolci e belle, non salate e secche e striate di amarezza come quelle di adesso. Dove sei? Dove vai? Lo senti il nostro amore? Perché è stato amore, un grande amore.
Eri quello degli scherzi, per questo abbiamo creduto fino all’ultimo che ce l’avresti fatta anche stavolta. La voglia di scherzare ce l’avevi avuta anche a Torino, in quella notte piena di pioggia, quando avevi gelato il telecronista che ti voleva già lontano da noi, in quella città che dai e ridai ce l’avrebbe fatta a rapirti, e dalla quale volevi tornare. Avevi una sola casa tra le tue mille case e camere e scatole magiche, tu che eri nato in un castello come i principi delle favole. Ma non si torna nei posti dove siamo stati felici. Trovi solo case su case, catrame e cemento.
E’ stata una vertigine, i pensieri vanno e vengono, i ricordi roventi e acuminati adesso fanno male. Sfogliamo tristi la lanterna magica delle immagini, così dalla melanconia affiora lancinante lo scacco matto dato a sua maestà Diego mano de Diòs, proprio nella tua Cremona. Avevi davanti il più grande di sempre e gli calasti sul tavolo i tuoi quattro assi, tanti quanti i colori della tua bella stagione. Ed era quello il biglietto per la rivincita della coppa europea perduta, da consumare sui fantasmi di quella notte nella Svizzera verde, dove tutto sembrava finito per sempre, sulle note di quel carillon medievale col vecchio e il giullare e gli orsi e lo scheletro, e invece il bello doveva ancora cominciare. Anche se la tua sabbia nella clessidra era già scesa quasi per metà, beato che non lo sapevi e nessuno lo sapeva.
Così quella coppa, eri andato a prendertela in Svezia, alla fine di due ore di danza ferma, allora ci pensasti tu, due tocchi dei tuoi e tutto era fatto. Sembra di vederti riporre la cassetta degli attrezzi, dopo il colpo di testa del due a zero. Come se fosse normale, ma nulla per te è stato normale, neppure questa cosa inaccettabile. Alla fine per andare sul palco della premiazione ti diedero una tuta, perché la tua maglia l'avevi regalata a un belga, però lui si era tenuto la sua. E tornasti alle cinque del mattino trovando tutta la città all'aeroporto, eppure ti volevano di nuovo far andare via a tutti i costi, anche facendoti passare per la forca caudina di un mondiale inutile. Non andasti via né tu né nessuno, fino a missione compiuta. O quasi.
Fragole infinite di trent’anni fa. Tu a bordo campo, l’asciugamano in testa, a non voler vedere quella punizione che non c’era eppure spezzacuore lo stesso. E avresti ripensato per sempre a quel pallonetto finito di un niente a lato del palo. In tanti pensiamo: “Se dovessi cambiare qualcosa della mia vita, cambierei il risultato di quella partita”. Figuriamoci adesso che il tuo carillon suona un sordo silenzio. E l’inaccaduto si incagliò in quella Londra che era nel tuo destino. Ci saresti andato a vivere il resto della tua vita. A farti una famiglia. A prenderti l’anno scorso, nello stesso stadio che era diventato un altro, una specie di rivalsa che non era tale, non poteva esserla, e lo sapeva perfino il tuo fratello della giovinezza. Intanto il carillon suonava note sempre più lente, sempre più cupe. E mai come adesso devasta l'anima il ricordo di quel pallone calciato con dolcezza, verso l'angolino destro, e invece no, cade dalla parte sbagliata. Molti anni prima di Match Point, sempre a Londra.
Londra ha qualcosa a che vedere col principio e con la fine. Quella notte del '92 arrivò la fine dei giochi, l’età adulta, avremmo passato il resto dei nostri giorni a voltarci indietro. Te ne andavi e così la giovinezza era finita in un giro a tondo. Avresti sì, sollevato più tardi quella coppa con Lippi e Attilio, ma non era la stessa cosa e lo sapevi bene. E venne il 23 maggio, Sampdoria-Cremonese, come due statuine del carillon tu e Alviero, la cerimonia degli addii, tu a correre senza più niente addosso nello stadio ormai vuoto. Sono passati un cappotto di anni, siamo tutti un passaggio di allodole e con un colpo andiamo giù, e tu sei ancora e sempre sarai quel ragazzo che faceva le boccacce all’impossibile. Avresti meritato una canzone come quella di Serrat per Kubala, la più bella e tenera di sempre su malinconia e mistero del calcio, "onore e gloria a chi ha illuminato il sole della nostra follia, per la gioia di chi ha giocato con lui e tiene ancora la sua foto nel portafoglio". Qualcuno forse la scriverà, ma tu la ascolterai da lontano lontano. E terremo, certo, anche se giocare ti abbiamo visto soltanto, la tua foto nel portafoglio. Saremmo andati alla Guardia per rivederti com'eri, lo avevamo giurato, ci andremo lo stesso per accendere una candela, per ringraziarti, eccome.
Oppure la candela agirà e tu sarai per sempre il giovane uomo che correva lambendo le onde alle Arenelle, per guarire e riprenderti tutto (foto per gentile concessione di Luca Sanguineti, figlio di Giorgio "Foto Flash" autore dello scatto). I cavalloni ti facevano un baffo e io ripenso a quei versi dell’Antigone: Molte sono le malvagità del mondo ma l’uomo tutte le supera, anche oltre il mare di spuma sotto l’impetuoso vento del sud, egli avanza ed attraversa le perigliose onde che gli ruggiscono attorno. Quelli che sono stati giovani insieme con te pensano sia stata una fortuna, sarebbe stato bello continuare, tu avresti trovato un modo di non invecchiare nemmeno da vecchio, invece è andata così. E' finita troppo presto. Non brinderemo più a niente se non alla tua assenza, che nella camera verde si aggiunge ad altre, sono troppe ormai. C'era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones, poi gli è arrivata la cartolina per la guerra, adesso c'è solo un vuoto grande come tutto il tempo trascorso insieme, a vederti fabbricare miracoli, di stazione in stazione e di porta in porta, a sperare che vincessi anche questa partita, e il dolore passerà chissà se e quando. E adesso cantaglielo, a Pelé, il coro che a quei tempi là ti cantavamo noi, chissà se lo ha mai saputo che vi avevamo messo nello stesso ritornello, anzi cantàtelo insieme, guarderemo lassù per sentirne l'eco.
Finisce sempre così, con la morte, prima però c'è stata la vita, l'emozione e la paura, gli sparuti inconsistenti squarci di bellezza. Ricordi quanto siete stati belli, dopo nessuno è più stato bello così? Da quando abbiamo saputo che non stavi bene, quante volte abbiamo pensato che avremmo ridato volentieri indietro tutto quello che di meraviglioso ci avevi fatto vivere, purché guarissi. Ciao Gianluca, non è bastato il bene che ti abbiamo voluto, che ci hai voluto, e non sai quanto. Ma il bene non basta mai.
IL COMMENTO
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