
Men che mai adesso, dunque, la vicenda giudiziaria può essere relegata nel recinto delle cose “che fa la magistratura”, con i politici, e gli stessi partiti, che si limitano a manifestare “sorpresa e sgomento” trincerandosi dietro il luogo comune secondo cui bisogna lasciar lavorare gli investigatori. E certo che bisogna lasciarli lavorare, ci mancherebbe altro. E certamente non siamo noi a voler tranciare giudizi definitivi o, addirittura, emettere sentenze. La giustizia farà il suo corso (sempre che non arrivi da Roma un provvidenziale colpo di spugna, considerando che analoghi dossier sono aperti in altre 15 Regioni), ma ormai l’inchiesta pone una “questione politica” che va affrontata e risolta.
In realtà sarebbe dovuto avvenire subito, al comparire delle contestazioni e dei primi indagati. E’ vero che la Regione, di fronte al sorgere dello scandalo, ha messo mano alla normativa, rendendo più stringenti i controlli e le rendicontazioni, ma faceva e fa acqua da tutte le parti il teorema secondo cui l’amministrazione guidata da Claudio Burlando può stare al di sopra delle parti, perché la questione riguarda il consiglio (e pure il suo presidente Rosario Monteleone ha dovuto dimettersi travolto dallo scandalo). Dentro il Palazzo ha retto finché l’inchiesta non è arrivata alla svolta dell’arresto di Scialfa. Ora non è più sostenibile neanche lì.
Burlando deve decidersi a “sporcarsi le mani” e affrontare la situazione anche alla luce della sua conversione “renziana”: se genuinamente sostiene il rinnovamento predicato dal nuovo segretario del Pd, che bolla come “porcate” tutte le vicende di questo genere ed è stato un feroce sostenitore della cancellazione dei rimborsi ai partiti, il governatore ligure deve mettersi pesantemente in gioco e pretendere primo fra tutti che venga fatta pulizia. Con una larga fetta del consiglio iscritta nel registro degli indagati, il problema non si può liquidare – non si sarebbe mai potuto e dovuto, in verità – sostenendo che ognuno risponde per sé poiché la responsabilità penale è personale. Qui c’è una evidente questione di sistema e Burlando deve intervenire in quanto presidente della Regione e, anche, proprio perché amici e avversari gli riconoscono le doti del politico di razza e di rango.
Non sarà facile, certo: la malapianta dei soldi pubblici dissipati accomuna i partiti in un reticolo di interessi e di complicità che rende più probabile la reazione dell’omertà e del serrare le fila. Per questa ragione ci aspettiamo che Burlando si spinga fino al punto da minacciare le dimissioni – e se necessario rispedire davvero tutti a casa – qualora la volontà più diffusa del consiglio regionale fosse quella di rifiutare la ramazza. Mentre sono costretti, come tutti gli italiani, a sacrifici enormi e a incredibili equilibrismi per quadrare i conti delle loro famiglie, i liguri hanno il diritto di sapere come sono stati utilizzati i loro soldi. E hanno pure il diritto che gli autori dei misfatti siano una volta per tutte accompagnati fuori dalla porta. Senza aspettare che la magistratura completi il suo lavoro.
Del resto, se anche giudiziariamente finisse tutto in una bolla di sapone, la giunta e il consiglio regionale avrebbero il coraggio di dire che non è successo nulla? Avrebbero l’improntitudine di giudicare ammissibili quelle spese non casualmente definite pazze? Se un primo, parziale giro di vite è già stato, di fronte allo scandalo, vuol dire che il problema c’è, al di là delle conclusioni dei giudici. Dunque, la politica ha il dovere di dare delle risposte. Chiare, immediate e nei fatti. Se ancora è capace di un sussulto di dignità e di orgoglio.
IL COMMENTO
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