politica

4 minuti e 57 secondi di lettura
Andrea Orlando alla Giustizia, Roberta Pinotti alla Difesa. L’annuncio della squadra dei ministri del neonato governo guidato da Matteo Renzi è un “botto” per la Liguria. Due ministeri, e di quel peso, sono non solo inattesi, ma anche una novità per una regione piccola, poco ascoltata, con problemi enormi e indicatori economici da Mezzogiorno anziché da Nord-Ovest. Che succede, allora? Il mondo si è messo a girare al contrario, le debolezze diventano una forza e una classe dirigente sbertucciata negli anni per la sua inconsistenza-inconcludenza si rivela improvvisamente capace di una performance politicamente “monstre”?

Niente illusioni. Orlando e Pinotti sono solo, solo si fa per dire, due punte di diamante, individualità che hanno saputo giocare al meglio le loro carte, secchioni che hanno percorso in lungo e in largo i corridoi romani senza bruciarsi, anzi nel tempo aumentando esperienza e competenze, poliedricità e relazioni che oggi li portano a incarichi da far tremare i polsi. Lo spezzino Orlando dovrà cimentarsi con quella che può definirsi la riforma delle riforme, quella giustizia così ammalata e così tirata per la giacca (da Berlusconi) che per essere cambiata alla radice richiederà mosse da passare al microscopio per impedire che ognuna si riveli un inciampo tale da condurre al fallimento. Alla Difesa Pinotti dovrà coniugare gli interessi di un mondo storicamente lontano dalle origini del Pd e però chiamato a presidiare anche rilevanti questioni di carattere industriali. Si pensi, per citare l’esempio più prossimo a Genova e alla Liguria, alla galassia Finmeccanica e ad aziende quali Selex Es e Oto Melara, senza tralasciare Ansaldo Sts.

Orlando e Pinotti ministri, però, possono soltanto simbolicamente rappresentare il riscatto di una classe dirigente, quella ligure, che rimane tal quale Renzi l’ha trovata. Al più, e comunque non  è poco, i due essere utili proprio per fare da traino, per restituire alla regione una voce più forte e fiera negli ambienti romani che contano, cercando – fra un impegno e l’altro dei loro dicasteri – di rimuovere quelle incrostazioni e quelle inedie che hanno provocato immobilismi sventurati o schematismi politici rivelatisi in tutta la loro modestia. Parliamo, ad esempio, delle larghe intese portate avanti dal governatore ligure Claudio Burlando in una regione dove questo abito ha finito per rivelarsi a misura solo per giochi di potere fini a se stessi o a poco di più. A ben vedere la nascita del governo è anche lo smacco più grande per Burlando.

Vere o fasulle che fossero le voci circa la sua aspirazione a un ruolo nazionale – che egli stesso è sembrato avvalorare con il suo intervento sui temi dello sviluppo economico durante la direzione del Pd che ha licenziato Enrico Letta – Burlando deve incassare la promozione di due liguri che lo hanno contrastato, anche duramente, nella difficile partita della segreteria regionale. Lui stava e sta con Alessio Cavarra, gli altri due appoggiavano Giovanni Lunardon. Stiamo per vedere come finirà questa disputa, ma Burlando si è mosso in queste settimane sventolando la bandiera del rinnovamento nel  nome di Matteo Renzi e certo non è stato ripagato al meglio. Si potrà obiettare che la Pinotti alla Difesa è figlia anche del volere di Giorgio Napolitano e che Orlando alla Giustizia è arrivato per un verto del centrodestra sul nome del magistrato Gratteri. Vero.

Dinamiche che sfuggono alle diatribe locali, ma il risultato finale è una doccia fredda per Burlando e per i suoi sostenitori. Quanto al resto del governo, Renzi si è mosso con il “cinismo” che in quattro e quattr’otto lo ha portato a disarcionare Letta e a prenderne il posto di Presidente del Consiglio. Pier Carlo Padoan all’Economia è una mossa nel solco della continuità delle garanzie da offrire all’Ue e alla Bce, ma ha venature politiche più marcate rispetto al profilo squisitamente tecnico di chi l’ha preceduto, ed ha anche la particolarità di essere un d’alemiano. Renzi, cioè, ha pescato fra i personaggi vicini a quel Massimo D’Alema che fin dagli esordi ha voluto rottamare a ogni costo. Significative anche le scelte di Federica Guidi allo Sviluppo economico e di Giuliano Poletti al Lavoro: la prima viene dal mondo di Confindustria, il secondo dalla cooperazione. Con abilità tattica, cioè, il nuovo premier lega a sé ambienti che a vario modo avevano accresciuto il loro atteggiamento critico nei confronti del governo Letta.

Una sorta di salvacondotto. Come quello rappresentato, per i difficili conti da fare al Senato, dalla nomina di Maria Carmela Lanzetta: civatiana, si era espressa contro il siluramento del precedente esecutivo. Ora che entra in quello nuovo, sarà lei a condizionare Pippo Civati fino a farlo recedere dall’ipotesi di votare contro e, persino, di lasciare il Pd? Infine, ma certo non da ultimo, le conferme di Alfano, Lupi e Lorenzin rispettivamente agli Interni, alle Infrastrutture (una buona notizia per la Liguria) e alla Sanità. Alla fine, cioè, Renzi ha dovuto abbassare le ali con il Nuovo centrodestra e lasciargli i tre ministeri che il partito nato dalla scissione del Pdl gli aveva imposto fin dal primo momento.

Complessivamente, l’esecutivo appare comunque equilibrato. Se questo lo porterà anche a centrare gli ambiziosi obiettivi che Renzi si è posto è però tutto da vedere. Alle volte, infatti, il diavolo sta nei dettagli. Può apparire un dettaglio il fatto che il premier non abbia un vice. Ma non lo è. Vuol dire che politicamente Renzi avrà sì una maggioranza, ma la partita dovrà giocarsela tutta da solo. Senza altri leader di partito (Alfano sarà ministro e nulla più) a fargli da spalla politica. Se vince, vince lui. Se perde, perde lui.