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Due voti con una sola scheda. L’esito delle elezioni europee impone una doppia lettura, una di politica interna e una di politica continentale, se si vuole uscire dal vicolo cieco nel quale il mondo dell’informazione e molta parte dell’intellighenzia si sono cacciati nel formulare analisi e previsioni che l’apertura delle urne ha apertamente sconfessato. Due letture che, peraltro, finiscono per convergere, poiché quanto accadrà nelle singole cancellerie peserà poi nelle sedi istituzionali di Bruxelles e Strasburgo. Ma andiamo con ordine.


Matteo Renzi stravince, Beppe Grillo esce ridimensionato, Silvio Berlusconi prova a immaginare che lo striminzito risultato di Forza Italia sia un argine alla decadenza. Ulteriori variabili: il Nuovo centrodestra di Angelino Alfano non sfonda, la Lega rialza la testa e la sinistra-sinistra incarnata dalla Lista Tsipras annuncia di non essere morta.


La performance dell’ex sindaco di Firenze va oltre ogni più rosea previsione. E anche quella del comico genovese, ma in senso opposto. Che cosa è accaduto? Semplicemente che gli italiani rivelano di essere un passo avanti rispetto a quanti ne vivisezionano umori e comportamenti politici. Mentre i cosiddetti opinionisti continuano a discettare su un corpo elettorale alla costante ricerca dell’uomo della provvidenza – in successione, così sono stati dipinti Berlusconi, Prodi, Grillo e lo stesso Renzi – utilizzando vecchi schemi ideologici per le loro analisi, il Paese mostra, invece, un realismo che lo rende molto simile alle democrazie compiute dell’Occidente. I cittadini, cioè, scelgono la persona e il programma al quale affidarsi senza curarsi affatto degli aspetti “accademici”. Se Renzi trascina il Pd oltre il 40% è perché attinge voti in tutti i serbatoi possibili, persino in quello dell’astensionismo: che resta forte, ma che non tracima (altra valutazione errata della vigilia). E questo ha un solo significato: l’attuale primo ministro incassa un altissimo per il solo fatto di aver dichiarato possibili le cose finora rimaste ingessate perché così affermavano le istituzioni nazionali e quelle europee. Gli 80 euro a chi ne guadagna meno di 1.500 al mese sono il simbolo di questo “cambiare verso”: sono poca cosa in termini assoluti, ma rappresentano un evento epocale se milioni di italiani toccano con mano un provvedimento fino a ieri considerato impraticabile. Poiché l’azione del governo in concreto è ferma lì e per il resto è soltanto annunci, la risposta elettorale è evidente: siccome una cosa l’hai fatta e altre (le riforme) le stai impostando, ti diamo il credito per andare avanti. Un atto di fiducia alla persona.


Esattamente quello che non ha più ricevuto Grillo. Il comico il suo plus di consensi lo aveva già incassato, ma secondo gli elettori lo ha disperso con una politica arroccata sul no a tutto. Prima a Bersani, poi allo stesso Renzi. L’errore dell’M5S è stato quello di non sfruttare la sua visione antisistemica per entrare nel sistema e disarticolarlo. Grillo rischia di dover dare ragione a quei parlamentari che ha espulso dal movimento: volevano inciuciare, come sono stati accusati, o piuttosto chiedevano di portare a compimento la missione di fare le cose che avrebbero rotto con il passato? A ben guardare, in fondo, la vera differenza fra Renzi e Grillo sta tutta qui: entrambi sono partiti dall’idea della rottamazione, ma questa idea l’hanno poi declinata in termini profondamente diversi. Il premier cercando di agire, l’altro puntando su quella che gli elettori hanno giudicato una conservazione (anche del se stesso politico?).
La lettura delle vicende interne, con Renzi che ora può pensare anche ad elezioni anticipate se frange del suo partito, la sua maggioranza spuria o Forza Italia dovessero mettersi di traverso sulle riforme, è anche la chiave per capire quanto accaduto nel resto d’Europa. In Francia soprattutto, dove le sofferenze del Paese non hanno ricevuto adeguate risposte dal governo di Francoise Hollande e hanno alimentato l’onda nazionalista di Marine Le Pen. Ma la destra sarebbe arrivata a tanto se davvero le ragioni più profonde del malessere dei francesi fossero l’euro e l’Europa e non, invece, le questioni interne?


L’esito del voto recapita a Bruxelles e a Strasburgo un messaggio molto chiaro: se alle grane di casa propria si sommano quelle provocate da una politica comunitaria dissennatamente rigorista si va verso il crac. Per questo la forza degli euroscettici, o eurosfascisti, non va sottovalutata, avendo oltretutto guadagnato significative posizioni. Ma, almeno per adesso, nei singoli Paesi, e quindi in ambito Ue, prevale la tendenza di volerci provare ancora a costruire l’Europa delle persone, che superi la costruzione meramente burocratica-finanziaria di questi anni. Se sia una cosa possibile molto dipenderà da Angela Merkel e dalla Germania, l’unico Paese, finora, che ha potuto lucrare sull’austerity. Se la Cancelliera riterrà che il suo risultato (ha vinto, ma perdendo consensi) debba ancora spingerla a non cambiare atteggiamento rischia di sbagliare i conti.  Perché a Renzi gli italiani hanno dato la forza per battere i pugni sul tavolo e Hollande sarà costretto a farlo dopo che i francesi gli hanno duramente spiegato che appiattirsi sulle posizioni di Berlino ha portato a Parigi più guai che vantaggi. Aggiungiamoci la Spagna e in ordine sparso altri Paesi dove l’euroscetticismo scala posizioni e abbiamo uno scenario che “impiccherà” la Merkel alla necessità di cambiare registro. Una prima risposta, comunque, l’avremo il 5 giugno, dal direttorio della Banca centrale europea: Mario Draghi annuncia decisioni importanti, in materia di garanzie sui debiti pubblici e di sostegno alla crescita. Se la Bundesbank alzerà l’ennesimo muro, l’Ue diventerà un vietnam. Frau Angela è certa di poterselo permettere?