I giorni appena trascorsi, per me, non hanno il colore del fango, ma il suono delle parole. E di parole, in questi tragici momenti, se ne sono sentite tante. Alcune hanno rattristato, altre hanno fatto riflettere, altre ancora, più di quelle che si sarebbero volute sentire, hanno indignato. Mi ero ripromesso di scriverle una volta terminata l’emergenza, ma se fossi coerente con questo proposito non dovrei scriverle mai, perché l’emergenza qui è eterna. Passata la pioggia restano la devastazione e la disperazione di chi sa, perché ci è già passato, che a tante parole non seguiranno i fatti e ancora una volta dovrà rimboccarsi le maniche sperando di riemergere da solo. Allora vanno messe giù quelle parole, non fosse che per ricordarle, tra un anno o tra dieci anni.
Ci sono le parole non dette della mancata allerta e quelle, suonate beffarde alle orecchie dei genovesi, dell’allerta del giorno dopo. Ci sono le parole di ammirazione e riconoscenza per i giovani, ma non solo giovani, che hanno ripulito la città senza aspettare che qualcuno desse loro una pala o un paio di guanti, ma spesso usando solo le proprie mani. Ci sono le parole di Diego, da Cecina a Via Archimede, salito sul treno senza pensarci un secondo, che al commosso “grazie” di un artigiano, al momento di salutarsi, risponde “prego”, sorride e abbassa gli occhi, a schernirsi per quelle parole semplici che fanno a botte con la devastazione che c’è intorno a lui. Ci sono le parole d’affetto degli amici preoccupati che chiamano da lontano per sapere come stai e tu ti senti in imbarazzo a dire che stai bene quando accanto a te è appena divampato l’inferno.
Ci sono le parole prive di significato, pronunciate da chi governa questa regione da decenni, ma ogni volta sembra essere capitato lì per caso. Parole per scaricare ad altri, siano essi meteorologi o magistrati, le responsabilità della propria inadeguatezza. Parole travestite da spiegazione, ma che non spiegano nulla se non il ritardo con cui vengono pronunciate. Ci sono le parole di rassicurazione del presidente del Consiglio, che non sai se prenderle sul serio o metterle insieme alle altre parole, troppe, che pronuncia ogni giorno e su qualunque argomento. Ci sono le parole di un sindaco che risponde alle tue domande dicendoti “adesso sto parlando coi cittadini e non parlo con voi”, dimenticando che chi si sta rivolgendo a lui è a sua volta un cittadino e che fare domande non è un dispetto e che rispondere, quando si guida una città che sta soffrendo, non è una cortesia: piaccia o no, sono entrambi doveri. Ci sono le parole durissime, gli insulti, di chi ha perso tutto e vuole sapere perché, prendendosela con chi alla fine, anche se in ritardo, è l’unico a metterci la faccia.
Ci sono le parole di chi fa il nostro mestiere e che ancora una volta ha dovuto raccontare cose che non dovevano accadere, una morte che non doveva esserci: lo ha fatto con impegno e partecipazione, anche emotiva, consapevole che le proprie parole sarebbero servite a tappare in parte i buchi del silenzio di chi avrebbe dovuto gestire il prima e il dopo. Ci sono le parole di chi “gli extracomunitari non hanno dato una mano”. Parole certamente scritte sulla tastiera dal computer o pronunciata dal caldo salotto di casa: chi era in strada a lavorare sa bene che è una squallida bugia. Ci sono le parole del politico che approfitta del disastro per tirare acqua alla sua corrente, mentre avrebbe fatto meglio a tacere per qualche giorno in più.
Ci sono le parole di chi ha perso tutto e non sa come farà a ripartire. Ci sono le parole di chi ha perso tutto, ma nonostante questo sorride, come Marco: è in una foto che ha chiesto di scattare alla fine di una giornata con il fango alla vita. Quando la furia del Bisagno ha colpito l’azienda di un amico in Via Volturno, a pochi passi da Corso Buenos Aires, Marco è andato ad aiutarlo senza pensarci due volte. Lui la sua azienda l’ha già persa tre anni fa in Via Fereggiano. Quel giorno suo padre si è salvato perché la Panda di famiglia che stava guidando si è ribellata alla strada che all’improvviso si era fatta fiume e alla fine, quasi a voler sfidare l’inevitabile, lo ha portato in salvo insieme ai suoi cari. Ce l’hanno ancora, quella Panda, l’ho vista: è di color rosso stinto, vecchia, ancora umida per lo sfregio dell’acqua che anziché dare la vita può toglierla, ha macchie di ruggine ovunque, in salita arranca, ma ce l’ha fatta anche questa volta. Mi ha ricordato la nostra città.
cronaca
Il suono delle parole scolpite sull'acqua
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