Il disegno di legge sulle unioni civili che porta il nome della parlamentare piddina Monica Cirinnà sembra destinato a un rinvio più prolungato dei tre giorni indicati giusto ieri. Ci sono divisioni politiche e, in più, tatticismi legati alla tenuta dell’alleanza che tiene nello stesso governo il Pd e il Nuovo centrodestra di Angelino Alfano. L’argomento è spinoso e divisivo e negli ultimi anni in più circostanze un provvedimento è parso sul punto di essere varato, salvo subire lo stop proprio in vista del traguardo.
In gioco ci sono questioni etiche e questioni finanziarie. Le unioni civili possono riguardare persone anche di sesso diverso, ma è a tutti noto che la normativa serve soprattutto a definire il recinto dei diritti degli omossessuali, uomini o donne che siano. Su questo punto, per la verità, il versante del no appare impegnato in una battaglia che vista con l’angolazione del resto del mondo (a cominciare dall’Unione europea) è di retroguardia. Riesce difficile comprendere come si possa negare, a due persone dello stesso sesso che liberamente decidono di vivere insieme, il diritto di assistersi reciprocamente in ospedale piuttosto che quello alla pensione di reversibilità.
Cito i due aspetti forse più conosciuti e che più impattano sull’immaginario collettivo. La reversibilità, certo, grava sui conti previdenziali, quindi sul bilancio dello Stato, ma non è che di fronte a questo ostacolo la politica possa cavarsela con la scorciatoia di un no al diritto che invece è riconosciuto a tutti gli altri cittadini per il solo fatto di aver contratto un matrimonio tradizionale.
Ne parlo in termini assolutamente laici, perché sul punto poco importa che le nozze avvengano solo con il rito civile o accompagnato da quello religioso. Tanto è vero che conosco coppie eterosessuali, intellettualmente contrarie al matrimonio, che dopo lunga convivenza e la nascita di uno o più figli, scollinati i cinquant’anni si sono arresi all’idea di pronunciare il fatidico “sì” proprio perché altrimenti non avrebbero avuto le coperture riconosciute alle coppie ritenute “ufficiali”. A cominciare dalla reversibilità. Com’è ovvio, il problema si pone in termini più stringenti, e per alcuni versi drammatici, quando si parla di omosessuali.
Non ho dubbio alcuno, quindi, che sia una giusta battaglia di civiltà quella per riconoscere anche a gay e lesbiche i diritti che stanno in capo alle coppie conviventi. Qui però mi fermo. Già sulle nozze, ad esempio, ho un dubbio: non sullo strumento in sé, ma perché individuando questa formula per sancire una convivenza si arriva poi al punto cruciale delle adozioni. Se il matrimonio omosessuale portasse tutti gli altri diritti di coppia escluso quello di poter adottare un figlio non ci sarebbe da eccepire, ma secondo molti autorevoli giuristi, al momento l’effetto collaterale del matrimonio fra gay e fra lesbiche sarebbe quello di aprire anche le porte dell’adozione. E qui non sono d’accordo. La libertà di due persone dello stesso sesso di vivere insieme non può contemplare la limitazione della libertà di un bambino di avere un padre e una madre, secondo il modello naturale. Il che viene prima di qualsiasi opinione si abbia sul fatto che due omosessuali possano anche essere dei buoni genitori.
Il tema dei bambini, dunque, è centrale quando si affronta la questione di consentire o non consentire l’adozione a gay e lesbiche. E’ noto che esistono studi internazionali secondo i quali la cosa “non costituisce un problema”. Fra questi studi uno dei più accreditati è quello dell’American Psychological Association, le cui conclusioni sono affidate all’attivista lesbica Charlotte J. Patterson della University of Virginia: “In sintesi, non c’è alcuna prova che le lesbiche e i gay siano inadatti a essere genitori o che lo sviluppo psicologico dei figli di omosessuali sia compromesso in qualche suo aspetto”.
La stessa Patterson, però, nel medesimo documento puntualizza: “Bisogna riconoscere che la ricerca sui genitori omosessuali e i loro figli è ancora molto recente e relativamente scarsa”. Inoltre, la studiosa riconosce che “la ricerca in questa area ha presentato varie controversie metodologiche” e che “sono state sollevate domande riguardo il campionamento, la validità statistica e altre questioni tecniche”, aggiungendo ancora: “La ricerca in quest’area è stata anche criticata per non aver usato gruppi di controllo in modelli che richiedono tali controlli. (…) Un’altra critica è stata che la maggior parte degli studi hanno coinvolto pochi campioni e che la maggior parte degli studi hanno coinvolto pochi campioni e che ci sono state inadeguatezze nelle procedure di valutazione impiegate in alcuni studi”.
E allora: se anche chi sostiene le adozioni per gli omosessuali, come Charlotte J. Patterson, ammette l’esistenza di alcune falle negli studi, pur arrivando ad una conclusione comunque positiva, è giusto che di fronte a diritto naturale del bambini di avere una madre e un padre si debbano fermare i diritti di gay e lesbiche. Perché alla tesi di Patterson se ne possono opporre altre, come quella di Claude Halmos, una dei massimi esperti riconosciuti dell’età infantile, la quale fra l’altro osserva: i sostenitori dell’adozione da parte di coppie omosessuali fanno leva “su un discorso basato sull’amore”, che però come altri ragionamenti “colpiscono per la loro mancanza di rigore”.
Infatti: “Un bambino è in fase di costruzione e, come per qualsiasi architettura, ci sono delle regole da seguire se si tratta di ‘stare in piedi’. E la differenza tra i sessi è un elemento essenziale di quella costruzione”. Dunque, per le coppie omosessuali, sì ai diritti. Ma no all’adozione.
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Coppie omosessuali: sì ai diritti, no all’adozione
In gioco ci sono questioni etiche e questioni finanziarie
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