Don Rito Alvarez ha 45 anni è originario del Catatumbo, regione del nord-est della Colombia, confinante con il Venezuela dove ogni mese vengono prodotte 40 tonnellate di cocaina. Dal 1993 è in Italia ed è parroco di Sant’Antonio a Ventimiglia dove ha accolto. In Colombia ha fondato una Ong, la ‘Fundacion Oasis de amor y paz’ con la quale recupera i bambini dai campi di coca e dalla guerriglia. A Sanremo un’ associazione per sostenere la fondazione in Sudamerica ‘Gli angeli di pace’.
Capelli a spazzola castano scuro, sulle tempie qualche macchia di bianco, occhi grandi e profondi che ti scrutano, un viso rotondo e un sorriso pacifico anche quando racconta esperienze drammatiche. Energico, molto attivo non sta fermo un attimo e quando inizia a parlare della sua storia, di quella del suo paese e di come si intrecci con i migranti al confine con la Francia non smetterebbe più, è un vero fiume in piena.
“Ricordo da bambino mentre andavamo a scuola i guerriglieri che passavano e ci facevano vedere le armi e ci invitavano a seguire la rivoluzione; ricordo in un’occasione portarono un nostro coetaneo di 13 anni e ci dissero che dovevamo seguire il suo esempio visto che a 13 anni aveva già ucciso tre poliziotti e quindi era uno che prometteva molto bene…”.
“Il mio amico con il quale sono cresciuto a 14 anni è stato ucciso dalla guerriglia e il suo corpo è stato abbandonato” lo dice con una voce che appare tranquilla ma tutto d’un fiato come se non potesse fermarsi.
“Negli anni ‘90 i contadini si sono illusi che piantando la cocaina la loro vita sarebbe cambiata e invece è peggiorata perché è entrato l’interesse dei guerriglieri per il traffico della coca. Poi entrarono i paramilitari e la situazione si fece molto difficile: tra il 1999 e il 2005 su un territorio di 250mila abitanti ci sono stati circa 13mila morti e tra questi anche alcuni miei parenti”.
Nei boschi sono fuggite 50 mila persone e tra queste c’era anche la famiglia di don Rito. “Nel 2001 i mie genitori e i miei fratelli sono stati costretti a fuggire perché bisognava abbandonare la zona per salvare la pelle”.
Racconta della fuga della sua famiglia con una tonalità normale e poi la voce si fa più dura e sottolinea la parola “rabbia” con forza: “in me c’era tantissima rabbia, mi sentivo impotente. La cosa più triste è che devi lasciare la tua terra, la tua casa, le tue cose e partire”.
Rabbia che ha portato a pensare in un futuro diverso. “Nel maggio 2006 pensando cosa potevo fare per la mia gente e in particolare per i bambini sfruttatati nelle piantagioni di coca, ho pensato di creare un centro di formazione ed educazione alla pace dove far studiare questi bambini e farli vivere nella normalità”.
Don Rito sembra quasi non prendere fiato dall’energia e dalla voglia che ha nel raccontare le storie di quei bambini strappati, letteralmente, alla guerriglia. Sono partiti con 10 e ora sono 150 ancora troppo pochi se si pensa che in Colombia sono 18mila quelli costretti alla guerra. Gli occhi si illuminano e don Rito parla di uno tra i primi arrivati nella fondazione: “Josè non sapeva neanche quanti anni aveva, solo dopo qualche mese abbiamo scoperto che aveva 14 anni e abbiamo festeggiato il suo compleanno per la prima volta”. I primi 10 bambini nel 2007 li abbiamo accolti letteralmente in una baracca, non c’era il refettorio che era all’aperto, in una stanza dormivano i bambini e nell’altra mia sorella che facevo loro da mamma. La cucina era di fortuna e mia madre mi ha prestato pentole e posate e tutto quello che serviva”.
Oggi la fondazione è un centro molto importante per il territorio e tutti lo conoscono come l’oasi di pace dove i ragazzi si formano a una mentalità nuova e dove possono vivere in pace senza coca e armi. “Dal 2013 a 25 km di distanza abbiamo iniziato un nuovo progetto il centro universitario. Abbiamo sviluppato anche una fattoria, abbiamo gli animali e coltiviamo caffè. La fondazione è diventata un punto di riferimento e diversi contadini vengono a vedere quello che facciamo e alcuni prendono spunto per adattarlo nelle loro campagne e fornire così un’alternativa concreta alle piantagioni di coca”.
Un lavoro questo non gradito ai narcos. “In passato nel 2009 ho subito minacce da alcuni malavitosi della zona e un momento difficile è stato nel 2011 quando è stato ucciso mio nipote di 19 anni”. Lo dice così secco, fa un respiro, alza il viso al cielo quasi a cercare aiuto, sostegno, gli occhi si riempiono di lacrime. “Non mi piace parlare di questo, ci hanno detto che era stato un errore, di prove ne abbiamo avute e continuiamo ad averle. Essere cristiano ti dà una forza in più, dà un senso a quel dolore, a quella fatica”.
Don Rito in Italia è impegnato con l’associazione Angeli di Pace di Sanremo per diffondere la realtà della cocaina soprattutto tra i più giovani partendo dall’origine. “Ogni dose distribuita anche qui in Liguria equivale a 2 settimane di lavoro di un bambino che inizia a lavorare nelle piantagioni a 5 anni. Tanti bambini rischiano la vita per chi consuma droga. Vorrei che gli spacciatori e chi sniffa sapesse che sta distruggendo la vita di un bambino, sta sfruttando chi vive nella miseria che non ha scarpe e dorme per terra e ha lavorato due settimane per mangiare un pezzo di pane”.
La storia della Colombia, della fuga della sua famiglia ritorna nella storia attuale di don Rito quasi come fosse uno scherzo del destino. Nella parrocchia di Sant’Antonio accoglie infatti i migranti fuggiti da Siria, Etiopia, Sudan, Somalia. “Quando ho visto tutte quelle persone per le strade di Ventimiglia nella mia mente pensavo ai miei genitori, ai mie fratelli costretti a fuggire senza potersi portare neanche le pentole e da cristiano poi non potevo chiudere cuore, occhi e porte a queste persone. Prima accoglievamo tutti poi dal 15 luglio quando è stato aperto il campo Roja ci occupiamo in particolare di famiglie, ammalati e minorenni”.
“Noi lì viviamo storie umane, con i volontari non parliamo di migranti, usiamo nomi propri e ci occupiamo di storie come di quella ragazza del Congo con 5 figli e che arrivando in Italia ha visto morire il suo unico figlio maschio di 10 anni caduto in mare”.
In questo momento la situazione più grave è quella dei minori non accompagnati. “Quando a 13 anni ti raccontano la loro storia sperando che qualcuno possa guardarli e possa dare loro una mano beh non posso che ripensare al mio passato, alla storia della mia famiglia”. E mentre lo dice in quegli occhi scuri e profondi vedi la Colombia, quei bambini di 5 anni scalzi tra le piante di coca e ragazzini un po’ più grandi che impugnano pistole e fucili quando dovrebbero solo giocare.
Cosa servirebbe ai migranti? “Una delle cose importanti è la verità, anche sui social girano tante falsità e questo fa male. Vorrei che la gente conoscesse la verità, che conoscesse le loro storie e la realtà dei loro paesi. Dal punto di vista locale ci vogliono azioni concrete e dal punto di vista internazionale bisogna essere lungimiranti e iniziare progetti in quei paesi dove possiamo formarli e far loro capire quali sono le loro ricchezze e opportunità”.
Ricordando sempre – come dice don Rito ai suoi parrocchiani - che non bisogna scoraggiarsi e che il bene va fatto bene.
cronaca
Don Rito: “Negli occhi dei migranti rivedo il dramma dei bambini guerriglieri”
Nella parrocchia di Sant’Antonio si occupa di 45 minori non accompagnati
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