Ma Duccio, così lo chiamavano gli amici e pure i nemici, era già malato e la sua parabola, di uomo e di presidente, si stava ormai compiendo. Personaggio schietto, diretto, spesso burbero, a volte dolcissimo, Riccardo Garrone non era certo diplomatico o un "santo". Non lo fu quando disse, con la grazia di un elefante in cristalleria, che non avrebbe mai buttato soldi a pioggia nella Sampdoria per non gravare sul tenore di vita delle propria famiglia. Salvo poi rimetterci complessivamente oltre 200 milioni di tasca propria. Non lo fu quando dichiarò di non essere matto come Moratti, che sperperava denari nell’Inter. E poi mandò il “povero” Marotta a chiedere Kallon in prestito ai nerazzurri. Non lo fu quando parlò di “macelleria Preziosi” per la rabbia di un derby perso in malo modo.
Ma Riccardo Duccio Garrone era così, un istintivo, che non si nascondeva dietro le ipocrisie quotidiane. Aveva grandi e visionarie idee, per Genova e poi per la Sampdoria. Il parco di Disneyland non glielo fecero mai realizzare, lo stadio di proprietà nemmeno. Parlava di “forze” del male che si opponevano al progresso e al rilancio della città. I fatti successivi, persino giudiziari, gli hanno dato in gran parte ragione.
Non era certo un ingenuo o uno sprovveduto, conosceva gli affari e gli uomini e le donne, ma coltivava sempre una componente sinceramente romantica dentro di sé. Come quando mi disse: “Persino i genoani mi fanno i complimenti perché ho mandato via Cassano per una questione di principio”. Confesso che non ebbi il coraggio di ribattergli che, se fossi stato genoano, gli avrei detto la stessa cosa… Non glielo dissi perché, da sampdoriano e da uomo, ero dalla sua parte e non da quella di Antonio.
Ma quella fu l’inizio della “fine” di un periodo segnato dalla personalità dirompente, ingombrante e generosa di Riccardo Garrone. Sì, generosa. Anche se molti sampdoriani lo accusavano di avere le “braccia corte”. E lui ci rideva su. Come sull’appellativo “Nano di Trasta”. Una volta mi raccontò: “Crede non lo sappia che i genoani mi chiamano così. Passi per il nano, ma a Trasta non ci siamo mai andati…”.
Aveva anche il senso dell’ironia, ma doveva essere lui a gestirla ed indirizzarla. Solo in una circostanza mi lasciai andare e prendere un po’ la mano dalla confidenza. Lo incontrai in via Garibaldi, stava andando a Tursi per l’ennesimo tentativo di regalare alla Sampdoria uno stadio di proprietà. Fumava un sigaro toscano. Ebbi l’ardire di rivolgermi a lui così: “Vede presidente, tra me e lei c’è un abisso, una voragine economica, ma io fumo un sigaro migliore del suo, un domenicano a capa scura”. Abbozzò un sorriso e mi impartì un’improvvisata lezione sul migliore tabacco italiano, coltivato nella provincia di Benevento, destinato ai suoi amati toscani.
La stessa cosa fece quando gli telefonai per avere conferma del litigo con Cassano. Non rispose né sì né no, mi disse soltanto: “Qualche volta Antonio esagera”. Mi bastò per capire la situazione, tanto lui mi stava già parlando di quando i daini vanno in amore. La caccia, il golf, la sua azienda di famiglia erano le grandi passioni di Riccardo Garrone. Lo divenne anche la Sampdoria, che gli offrì una popolarità che gli era sempre mancata. Il suo cruccio era quello di non riuscire a farsi amare abbastanza dai tifosi, ma il rispetto ed una sorta di silenziosa devozione li ottenne da subito. Anche andando spesso, come un uomo qualunque, a cenare e a giocare a carte nei club. “Lo stoccafisso cucinato al Mugnaini di Rivarolo è strepitoso”, mi confidò, invitandomi ad assaggiarlo. Aveva ragione.
Commise errori, eccome, alla guida della società. Era un neofita, proveniente da un mondo, quello del petrolio, dove le regole del gioco erano e sono completamente diverse dal calcio. Poteva e “doveva” fare di più? Forse sì, ma di certo per la Sampdoria fece moltissimo in termini di soldi, energie e anche passione.
Ho già raccontato nel mio libro “L’allenatore torna sempre con la sua squadra” che di me all’inizio pensava che avessi complottato con Enrico Mantovani per fargli prendere la Samp ad ogni costo. Col tempo comprese che non era stato così, sebbene gli avessi confessato che, se avessi davvero potuto, lo avrei fatto. Perché in cuor mio pensavo che dopo i Mantovani alla guida della Sampdoria potessero esserci soltanto i Garrone. Ed avevo ragione: sotto la sua gestione, quattro volte in Europa ed una finale di Coppa Italia persa ai calci di rigore. Sino al drammatico epilogo della retrocessione, quando la malattia incombeva e le vicende famigliari si stavano già increspando proprio a causa della Sampdoria e dei suoi costi lievitati. Poiché non è detto che grandi imprenditori siano anche grandi dirigenti di calcio, sul piano economico, intendo. Sotto il profilo dei risultati, Duccio Garrone è stato e sarà per lungo tempo il miglior presidente dopo Paolo Mantovani.
Io stesso, da tifoso, non perdevo occasione per arrabbiarmi un po’ con lui. Come quando venni inviato dall’allora direttore di Primocanale, Mario Paternostro, ad effettuare un servizio sul restauro di una piccola opera d’arte da parte della Erg. Riccardo Garrone, appassionato anche di pittura e scultura, ne era orgoglioso. Vidi quella statuetta e quando venne rivelato il costo del restauro, gli dissi, provocandolo: “Presidente, poteva investirli in una rinforzo per la Sampdoria…”. Duccio mi guardò e senza scomporsi replicò: “Michieli, lei non mi perdona mai niente. Ma io perdono lei, perché parla col cuore. Ora però mi faccia una bella intervista sull’opera d’arte, se no chiamo Paternostro e mi lamento ufficialmente del trattamento ricevuto da Primocanale”. Riccardo Garrone, con i suoi pregi e i suoi difetti, mi manca e continuerà a mancarmi, anche se sono trascorsi otto anni dalla sua scomparsa. Ma, credo, manchi (e mancherà a lungo) soprattutto alla Sampdoria.
IL COMMENTO
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