A scuola c’era sempre quello che alla lavagna, o al compito in classe di matematica, si sentiva più furbo degli altri, a un certo punto risolveva l’equazione forzando i passaggi intermedi oppure ignorandoli, fino a scrivere col gesso il risultato conosciuto sotto lo sguardo desolato della prof.
Saltare i passaggi difficili. Questa la cifra che lega gli studenti autosopravvalutati ad alcune figure e situazioni del nostro tempo.
Si individua una soluzione e la si dà a portata di mano, se non per già raggiunta, nel solo momento di nominarla, come quando si dice “No” alle cose brutte come per esempio la guerra, l’inquinamento, alcuni reati.
Poi nessuno riesce a spiegarti come sia stato possibile che in 130mila anni, arco di presenza sul pianeta dell’homo sapiens, le guerre siano state il basso continuo della Storia; e dopo tutto questo tempo arriviamo noi, smarriti contemporanei di noi stessi, non solo a sperare che di guerre non ne accadano, o meglio che ne accadano il meno possibile, ma addirittura a volerle abolire. Senza chiederci - eccoci a saltare i passaggi difficili - come mai in 130mila anni non ci sia riuscito nessuno.
I passaggi difficili sono appunto difficili. Nessuno così riesce a spiegarti, di fronte alle mirabolanti descrizioni di un mondo elettrico, da dove arriverà e insomma come verrà prodotta l’energia elettrica necessaria per far funzionare il mondo senza più motori a scoppio, caldaie a gas o nafta e via dicendo. E soprattutto nessuno che, tra un abuso e l’altro dell’aggettivo “sostenibile”, affronti il problema inscindibile da ogni tema ambientalista: la decuplicazione negli ultimi tre secoli, da 1 miliardo a 10 miliardi di esseri umani, della popolazione di un pianeta che è sempre grande uguale e che ha risorse naturali non tutte riciclabili. Di questo non si parla, anzi, ci si convince che la differenziata e le borracce salveranno il mondo sia pure parossisticamente sovrappopolato.
Nessuno riesce neppure a spiegarti perché certi fenomeni di violenza non si spengano con la propaganda, una propaganda che culmina inerzialmente nella richiesta di inasprimento delle sanzioni, richiesta che finisce per confliggere con istanze - di regola dalla provenienza comune - paradossalmente favorevoli al superamento del sistema penale classico, anch’esso esistente più o meno da sempre e mai davvero superato, forse perché non superabile.
Di fronte alle difficoltà ci sono svariati modi di affrontarle. Se una fede perde seguaci, può duramente riorganizzarsi nella prospettiva di una testimonianza fedele a se stessa, aliena dalla logica dei numeri e dell’Auditel; oppure fare come quelle persone che combattono con i cosmetici e la chirurgia estetica i guasti del tempo. In entrambi i casi il destino è la marginalità e l’irrilevanza, ma la prima scelta è più dignitosa, se non eroica. Così è triste lo spettacolo di un capo religioso che si adatta ai canoni della modernità, talvolta inseguendola, nell’illusione di non venirne omologato, discettando in sedi spesso estravaganti di tutto quel che il karaoke del presente diffonde, sempre nel tono più comodo e fruttuoso per l’applausometro, tranne che della sola risposta che una religione dovrebbe dare, alla domanda sul significato della vita e del suo contrario: rivedremo mai le persone care che abbiamo perduto?
Saltare i passaggi difficili accade anche alla nostra politica. Il Parlamento che adesso è percorso da fervori di riforma della legge elettorale, come ormai di regola accade a ogni fine di legislatura dopo che dal 1948 al 1993 lo strumento per designare deputati e senatori mai era stato mutato, è lo stesso che: 1) si è appena dimostrato incapace di trovare un nuovo capo dello Stato, 2) poco tempo fa ha approvato la sua diminuzione numerica (ma allora perché 400 e 200 e non 40 e 20?), 3) non è riuscito a trovare al proprio interno un uomo di governo. Nessuno guarda al vero problema: l’astensionismo, che da primo partito ormai stabile ha raggiunto la maggioranza assoluta. Se più di un italiano su due ormai non va a votare, si può ancora parlare di rappresentanza popolare e quindi di democrazia? E invece di cambiare le regole del gioco, secondo occasionali convenienze, non sarebbe il caso di provare a capire perché gli italiani ormai ritengono a maggioranza che votare sia inutile?
Si parla oggi di proporzionale come panacea, quando dopo Mani Pulite era stato definito il male assoluto. Certo il maggioritario non ha guarito la democrazia, ma se era stato adottato - sia pure parzialmente - come rimedio ai guasti del proporzionale, allora vuol dire che da noi nessun sistema elettorale funziona e quindi non sarà il caso di chiedersi se il guasto non sia altrove?
Forse per far tornare la gente alle urne un sistema ci sarebbe, e al tempo stesso un modo di collaudare la genuinità delle autoattestazioni di “politica come servizio”. Adottiamo davvero un bel proporzionale puro, in ogni seggio mettiamo una cabina un po’ più ampia del solito, con i bussolotti di tutti i partiti presenti al voto, ma al votante lo scrutatore non darà la solita scheda, bensì un foglio bianco e una busta da lettera, per scrivere il proprio nome cognome e indirizzo sul foglio, da chiudere poi nella busta da deporre alfine nel bussolotto del “suo” partito. Quindi si conteranno il numero di buste ottenute da ogni partito, si attribuiranno proporzionalmente i seggi e gli eletti verranno sorteggiati mediante estrazione e apertura delle buste. Le elezioni rispetterebbero gli orientamenti politici dei votanti, manderebbero però in Parlamento soggetti tirati a sorte, che non si erano candidati e così avrebbero cinque anni di lavoro garantito e ben pagato con tutti i privilegi. L’affluenza tornerebbe ai livelli del 1948 e la qualità media degli eletti a sorte, visti gli ultimi esiti, non ne risentirebbe troppo. Una provocazione, certo. Non più irragionevole di altre.
IL COMMENTO
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