Non faccio che incontrare genovesi che si chiedono “come finirà?”. Che cosa? “Genova. Come finirà? Ce la farà?” Ce la farà a fare che cosa? “Ma a andare avanti…”. Già. Ce la farà? Beh, certo che ce la farà. Ce l’ha sempre fatta e ci mancherebbe se non ci riuscisse ora. Il problema é che per farcela a svoltare bisogna essere d’accordo tutti. Non d’accordo politicamente. Guai se fosse così. Ma uniti per raggiungere l’obbiettivo della svolta.
E allora ecco che i “Si, ma..” i “Vabbé, però...” l’onda lunga dei distinguo compare con la sua inesorabile forza frenatrice.
Genova è ed è sempre stata una città di idee e di fermenti, alcuni molto positivi, altri purtroppo negativi. Lo spirito mercantile che ha portato la città a conquistare posizioni di dominio nel Mediterraneo e in Oriente, quello di curiosità che ha generato un popolo di naviganti, quello scientifico con personaggi come Maragliano, la forza operaia nelle acciaierie o sui moli, nei cantieri o nelle raffinerie, le scuole di medicina o del diritto, l’impresa innovatrice, l’arte e la letteratura, la musica e il teatro. Poi l’ansia di cambiamento, le rivolte anti-potere nella città più ribelle d’Italia, ma anche, tragicamente, il terrorismo negli anni ’70.
Dunque Genova non ha tradizioni di rassegnazione.
Però oggi appare così: rassegnata. Città che con i suoi abitanti allarga le braccia e sospira. Immobile e indifferente. Non riesce nemmeno più a indignarsi di fronte a miserie come quelle rivelate dall’inchieste sulle “spese pazze” della politica, assiste inerte alle spartizioni delle aree portuali come se non fossero suo territorio ma roba d’altri, ai tentativi di scippi d’impresa e di cultura, lascia che passino settimane e mesi senza che a Palazzo San Giorgio si insedi un nuovo comandante, non ha la minima idea di che cosa sarà, Genova intendo, nei prossimi anni. Attende passiva che abbassino le saracinesche negozi di famiglia che hanno fatto storia, non scende in piazza a difendere un giornale antico come il Corriere Mercantile, non fa nemmeno le barricate intorno a un valore scientifico e solidale come il Gaslini. Tutto scorre sul letto fangoso del Bisagno, dove pascolano i cinghiali. Nell’isolamento non più Superbo, ma egoista.
Genova brilla per gli Assenti. Niente di male ad essere assente: l’ “io non ci sono” è una scelta di vita e di comportamento. Ma dove sono i protagonisti di un tempo nemmeno troppo passato? Per esempio, gli Industriali. Peppino Manzitti lottò cinquant’anni con i denti per convincere della necessità di un nuovo valico verso la Lombardia. Duccio Garrone si metteva alla testa di un corteo per rivendicare i diritti industriali della città. Ho scelto due figure differenti ma unite da un unico obbiettivo: rivendicare il ruolo di Genova nel tessuto nazionale.
E la buona borghesia? Certo che teneva quantità industriali di Bot in banca, ma ogni tanto li utilizzava per costruire, realizzare, fare soldi e affari, creare lavoro. Ora? Non è leggenda che le banche (non solo cittadine) abbiano notevoli quantità di risparmi genovesi. Bene. Ottima cosa il risparmio. Ma possibile che non esista voglia o interesse a muoverli questi denari per la propria città e , perché no, anche per la proprie tasche?
A Genova è assente anche il dibattito, il confronto. E’ assente persino lo scontro di idee e opinioni. E anche l’incazzatura.
E finché le assenze saranno la nuova filosofia della città non basterà cambiare l’inquilino di Palazzo Tursi per darle la carica. Ci celebreremo magari al Ducale con un fastoso Festival dell’Assenza. E allargheremo le braccia davanti alla fontana di De Ferrari.
politica
Genova, la città degli Assenti
Spicchi d'aglio
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