cronaca

3 minuti e 23 secondi di lettura
A nove mesi esatti dal crollo, il tempo di una gestazione, la domanda è legittima. A che punto è il ponte, la sua demolizione così spettacolare e complicata, come ci si innesta dietro la sua ricostruzione, che viene vista come l'alba di un tempo nuovo per tutta la città? Non è tanto l'anniversario che pone la domanda, ma un giornale come “Repubblica” che ti piazza Genova tra le città “in bilico”, proprio per i rallentamenti sul Morandi e insiste sul tema, segnalando gli scostamenti dalle date annunciate e riannunciate dal sindaco-commissario Marco Bucci: entro il Natale 2019 il nuovo ponte sarà in piedi, il 20 aprile 2020 il nuovo ponte sarà inaugurabile, quindi percorribile.

Se nel giorno dell'anniversario, nove mesi dopo, vai sotto il ponte come ho fatto io, vecchio cronista, in una giornata di grande luce, quelle date ti sembrano impossibili. Il ponte maledetto domina ancora la valle con i suoi tratti interrotti, con i suoi pieni e con i suoi vuoti, con le pile assaltate dalle gru e con quelle ancora in piedi verso Levante, verso l'elicoidale che svetta come se niente fosse sopra le case sfollate di via Porro, del Campasso, provvisorie nella loro esistenza di condannate allo sbriciolamento, ma ben piantate con il loro carico di ricordi, di vita esportata dai suoi muri, tra lacrime, rimpianti, nostalgie struggenti.

E' vero: sembra impossibile che quelle date possano essere rispettate, perchè demolire è molto più difficile che ricostruire, perchè c'è l'amianto, meno magari di quello che sembrava, perchè l'esplosivo è una pratica complicata da applicare a quegli stralli, a quei palazzi muti là sotto, perfino al sacrario di questa valle colpita, ferita a morte, ma ancora viva, perchè ogni giorno c'è un problema da superare, il vento, la pioggia, perfino la mafia.......

Se ti dicono che tutto potrà slittare di otto mesi, di un anno perfino, non sembra catastrofismo: osservi quel cantiere immenso, che sembra un alveare, nella luce sfolgorante di maggio che buca per un giorno le nuvole, e percepisci che siamo ancora in una atmosfera di lutto, davanti a una tragedia immensa e un po' chini il capo.

Ma poi se vai più dentro alla città sotto il ponte, nei quartieri sfalciati dal crollo, a Brin dove la metropolitana scarica centinaia di passeggeri, se giri per le strade di Certosa, se sali verso la chiesa di san Bartolomeo in quel chiostro, ieri pieno di sfollati e danneggiati, ora pieno di mamme e di bambini e ripercorri le vie e le trovi fitte di gente, i negozi tutti aperti, gli anziani a crocchi sulle panchine, capisci che qui la speranza, non la rassegnazione, ha vinto.

Capisci che l'ombra del grande cantiere, duecento metri più in là, nel cupo rimbombare dei lavori, nel movimento silenzioso delle grandi grù, nel viavai dei mezzi intorno, infonde quella speranza, ti stringe ancora il cuore nella morsa del dolore per quel che è stato, ma ti dice anche che si va avanti. Che non si molla.

Certo, forse sono in ritardo, di quindici giorni, come tranquillizza il sindaco, di più come osservano i critici, forse l'operazione di demolire e ricostruire è immensa, ma lo stanno facendo, ci stanno provando a ricorrere quel tempo, a cercare di ridurlo al minimo, a mantenere le promesse. Forse si è perso un po' di tempo all'inizio nella lite sulla concessione da revocare alle Autostrade, nella preparazione di un decreto Genova molto più faticoso del previsto, che solo l'unità ferrea della città e dei suoi rappresentanti ha fatto correggere. Bucci e anche Toti di più non potevano fare e diversamente non potevano dire: questo va sempre riconosciuto. A volte si è anche istituzionalmente obbligati a essere ottimisti.

Ora la vera operazione, che sta dietro quel grande cantiere, nove mesi dopo la ferita, è demolire il pessimismo, che può incomincare a serpeggiare sopra e sotto il ponte e nella città ancora colpita e nel mondo che la osserva.