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Un’ovazione sobria, direi elegante, in mezzo a una politica sgualcita
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Il momento più sorprendente della fredda giornata romana di ieri, la giornata del giuramento del governo di compromesso storico di Mario Draghi, non è stato vedere sfilare Brunetta e la Gelmini,insieme a Orlando e Speranza, Di Maio poco prima o dopo Giorgetti. No. Il momento che di più mi ha sorpreso è stato l’applauso forte e caldo che i dipendenti normali, semplici (non i burosauri) di Palazzo Chigi hanno tributato al presidente uscente, l’avvocato del popolo Giuseppe Conte, aprendo tutte le finestre che danno sul cortile dell’ austera sede dei governi repubblicani.

Un’ovazione sobria, direi elegante, in mezzo a una politica sgualcita, incolta, inconcludente e soprattutto, infida, che in queste ultime settimane si è accomiatata da noi, speriamo definitivamente. L’applauso a Conte che ha voluto per una volta essere non solo, ma con la sua compagna, mi è sembrato il riconoscimento convinto di “colleghi di lavoro” a un marziano che i Cinquestelle hanno inventato come leader di un governo che sembrava uno scherzo della natura. Conte, al di là di tutti gli errori, ha affrontato con grande dignità l’abbattersi della pandemia sul nostro Paese un anno fa, evento che mai nessun presidente del Consiglio ha dovuto sopportare dal dopoguerra. L’applauso è sembrato quello non dei dipendenti di Palazzo Chigi, ma dei cittadini normali, che hanno vissuto e stanno ancora vivendo l’incubo del Covid. Impauriti, angosciati dalla malattia, dal futuro, dalla perdita del lavoro.


Ecco che questo applauso, credo, abbia convinto ancora di più l’ex premier a non lasciare la politica. Quell’”io ci sono” regalato appena prima di uscire dal portone della casa del primo ministro, dovrebbe essere la conferma che Giuseppe Conte resterà in campo. Ce ne accorgeremo prestissimo, alle prossime e vicinissime elezioni amministrative e certamente alle prossime non lontane elezioni politiche. Perché la fine di “questa” politica, l’applauso a Conte dopo mesi di sbagli, tradimenti in casa, ma anche decisioni cruciali, mai immaginate negli oltre settant’anni precedenti, segna una linea di confine. I partiti sono davvero finiti così come li abbiamo vissuti fino a ieri. Finiti perché sconfitti sul campo, non avendo avuto la capacità di risolvere la situazione complicata con le loro mani e capacità (presunte). Con i loro vecchi metodi. Con i loro uomini. I Cinquestelle spaccati e emarginati, il povero Pd martirizzato e talmente ininfluente da non aver a disposizione nemmeno una donna per questo governo, la Lega ritornata agli ordini del Nord con un dietrofront militare, e gli altri rimasugli a fare le comparse senza poter dire una battuta o tuttalpiù per balbettare sul palcoscenico “Signori il pranzo è servito”.


Dunque ora tutto deve essere ricostruito. Draghi e la sua metà potente di governo chiamati a disegnare un nuovo Paese europeo e stop. I politici a ricominciare daccapo il lavoro. Per strada. Proprio dalle prossime amministrative che toccheranno anche la Liguria, Savona e un po’ di mesi dopo anche Genova. E poi, a meno che non ci siano elezioni politiche anticipate, finalmente l’appuntamento nazionale.

Il Covid ci ha cambiato la vita, il modo di lavorare e di pensare. Di concepire il cosiddetto tempo libero. Di abitare e di muoverci, di mangiare e di distrarci. Di guardare la tv e di leggere i giornali. Lo ha fatto troppo spesso tragicamente. La politica deve adattarsi a questo cambiamento. Arriveranno facce nuove? Certamente. Insieme a Conte, magari Bonaccini, Zaia, forse anche Toti e Bucci e chissà chi altro. Probabilmente molti amministratori locali, per nostra fortuna. Ma niente sarà come prima e i tempi sono strettissimi. Il lavoro è difficile. Ma la strada è obbligata. O così, o così.