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di Luigi Leone

D'accordo, sarò anche cinico. Ma io credo che agli avvenimenti del dopo elezione-bis di Sergio Mattarella al Quirinale si debba dare una lettura molto meno nobile di quanto spesso si stia facendo. Il ministro Luigi Di Maio chiede un chiarimento interno ai Cinque Stelle e si dimette dal Comitato di garanzia? E certo, perché se non cambierà lo Statuto del Movimento (e a questo punto è difficile che cambi) lui alle prossime elezioni del 2023 non potrà essere più candidato: ha fatto due legislature e deve tornare a casa. Forse, cercare un tema di rottura e uscire per tempo dai Cinque Stelle aiuta a salvare la faccia.

Prima è stato l'attuale capo politico del Movimento, Giuseppe Conte, a fare lo stesso ragionamento: non si è presentato alle suppletive di Roma (dopo l'elezione a sindaco di Roberto Gualtieri) per non bruciarsi una legislatura, mica per la codardia di cui hanno parlato molti. Per la stessa ragione ora sta tornando in rampa di lancio l'ex grillino, ma non tanto ex, Alessandro Di Battista: non lo ammetterà mai, ma ha saltato lo scorso giro elettorale per non sommare le due legislature che oggi, come nel caso di Di Maio, lo taglierebbero fuori.

Nel centrodestra ligure si litiga di brutto e il governatore Giovanni Toti è nel mirino di Lega e Fratelli d'Italia. Ma solo per i voti mancati a Casellati nella corsa al Colle? O perché Toti pensa a un Grande Centro con Matteo Renzi? In realtà, nella coalizione si stava già discutendo (eufemismo) da ben prima, da quando cioè Toti ha ribadito di voler presentare delle proprie liste (adesso di dice che magari dentro potrebbe esserci qualche esponente renziano) alle prossime amministrative, Genova compresa.

Finché non si è posto il problema, la Lega è potuta andare al governo con gli "odiati" Cinque Stelle e Toti ha potuto trattenere per sé le deleghe regionali a Sanità e Bilancio, flirtando politicamente con chi gli pareva, senza che nessuno battesse ciglio. Poi, quando ognuno ha dovuto pensare al futuro, allora non è andato più bene niente. Tutto è diventato un problema. E in effetti il problema c'è: alle prossime elezioni il Parlamento, per legge, avrà un terzo dei posti in meno.

Quindi, è ovvio che ci si sbatta per resistere: da Camera e Senato in giù, l'importante sarà portare a casa uno stipendio. Toti lo sa così bene da aver minacciato che se non finisce la guerriglia degli amici non così amici (come giustamente osservato da Mario Paternostro su questo stesso sito) si dimette e trascina tutti alle urne. Cosa che fa sempre un po' paura agli eletti. Oggi più di ieri. Difatti: con il Mattarella bis si sono volute evitare le elezioni anticipate e pare certo che gli smottamenti liguri si esauriranno appena lo show-down del governatore dovesse diventare ipotesi concreta.

Nel centrosinistra le cose vanno avanti allo stesso modo. Si notava di meno perché finora il grande tema era la scelta del candidato sindaco per Genova. E poi perché a queste latitudini la notizia non sarebbe la divisione fra una componente e l'altra, che esiste da sempre, bensì una ritrovata, improvvisa unità. Quella che a Genova sembrava nata intorno ad Ariel Dello Strologo era solo apparente. È durata giusto il tempo che i Cinque Stelle, ammesso che possano definirsi di centrosinistra, avvertissero che sulla candidatura accordi ancora non ce ne sono.

In realtà bisogna anche capire che cosa farà Italia Viva di Matteo Renzi: sosterrà il rivale di Bucci o l'ipotesi Grande Centro potrebbe spingerlo verso il sindaco di Genova? Dove, fra l'altro, troverebbe Toti. Ma la risposta ancora non c'è. Come per la gran parte delle scelte, bisognerà aspettare di vedere a chi gioverà il no oppure il sì. Della serie: tanto a Genova quanto a Roma, oggi la politica è soprattutto un grande gioco del "cui prodest".

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