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di Franco Manzitti

GENOVA - La battaglia contro la droga, che uccideva quasi tutti i giorni giovani vite in una progressione spaventosa, era diventata una emergenza sociale assoluta. Erano anni duri in assoluto, in una città che aveva cominciato la sua pesante trasformazione in un contesto  difficile. La caduta del modello industriale , il grande porto pubblico in crisi, l'uscita sanguinosa dagli “anni di piombo”, del terrorismo, che non finivano mai e avevano lacerato una generazione intera. Le ideologie, che erano oramai in crisi, ma mantenevano una contrapposizione forte dei partiti nella città e nella Regione, che avevano spesso governi contrapposti, con partiti ancora ben armati l'uno con l'altro: il Pci del quasi 43 per cento che cambiava Genova con i suoi alleati di un Psi in mutazione verso il craxismo, la Dc del suo fondatore e leader storico, Paolo Emilio Taviani, in discesa dopo avere perso Tursi, ma ancora dominante a Roma.

Il disagio sociale del quale la droga era la componente nuova e inarrestabile, e diventata ultra pubblica da quel giorno in cui la polizia aveva scoperto sotto una tenda allestita sul Turchino un gruppo di ragazzi che ne facevano un uso collettivo, incominciava a rosicchiare la comunità, soprattutto nelle periferie e in quel ventre molle che era il centro storico di allora, svuotato di abitanti, cadente, in attesa dei suoi progetti di recupero.

Chi lottava contro la droga che incominciava ad essere allora soprattutto eroina, le siringhe, il laccio , i buchi, i ragazzi che ogni giorno trovavamo o in condizioni disperate dopo l'overdose o morti, in qualche caruggio sperduto, in qualche angolo nascosto, abbandonati come pupazzi rotti da un malessere che faticavamo a capire?

Non passava giorno che una o più morti marcassero il nostro lavoro quotidiano di cronisti. Ed erano pagine intere, storie drammatiche di vite spezzate, di famiglie spesso inconsapevoli, di percorsi rapidi di perdizione, di inchieste degli inquirenti che scoperchiavano il mondo dei trafficanti, che ancora non chiamavamo pusher e dietro il quale scoprivamo lobby mondiali.

C'era prima di tutto don Andrea Gallo, che dopo le sue polemiche durissime con il cardinale principe Giuseppe Siri, il leader di una Chiesa forte ma anche molto conservatrice, contrapposta alle spinte di un cattolicesimo dissidente molto agguerrito, aveva incominciato a organizzare le sue prime comunità contro la droga. Il primo a capire quell'abisso sociale nel quale sempre più ragazzi precipitavano senza alcun paracadute sociale. C'erano psichiatri di buona volontà, le prime avanguardie formate nello spontaneismo volontario  nello scoutismo, nella tradizione cattolica di solidarietà della città aperta a nuove spinte, come Giampaolo Guelfi, come Pietro Iozzia, cresciuti nelle riforme di Basaglia, negli impegni nuovi dei partiti di una sinistra che allora era forte e quasi dominante. Egemonica nella sua visione culturale.

E improvvisamente, ma certo non per lei, arrivò quella signora delicata e gentile, Bianca Bozzo Costa, di grande tradizione famigliare nel mondo della assistenza e della solidarietà, che con amici ed esperti di disagi giovanili e non solo, medici, psicologi, sociologi della prima ora, stava fondando il Ceis.

Ricordo la prima notizia che arrivò in redazione a me giovane capocronista de “IL Secolo”: “Vieni a visitare il centro del Ceis in Salita san Bartolomeo degli Armeni: è una nuova iniziativa molto seria e strutturata, è un metodo moderno per affrontare l'emergenza della droga”.

Mi trovai di fronte un primo piccolo esercito di giovani volontari, di giovani medici, assistenti sociali ( allora si chiamavano così), che si preparavano e su tutto il sorriso fermo e deciso di Bianca che aveva lanciato il Ceis e stava dedicando la sua vita a quell'impresa.

Erano cinquanta anni fa e le parole d'ordine erano già solidarietà, assistenza, condivisione sociale, quelle di oggi, che con un po' di emozione celebriamo in questo anniversario con i suoi figli, soprattutto con Enrico che è il suo successore al Ceis,  con tutta la sua famiglia, con Beppe e con tutti gli altri, quelli che ci sono ora e che ci sono stati in tutti questi anni.

Il Ceis è stato un capolavoro di amore, possiamo dirlo oggi senza temere retorica e esagerazioni. Amore verso il prossimo, che si manifesta con le modulazioni anche emergenziali del soccorso a chi sta male.

Allora la droga era spesso un Sos individuale al quale Bianca e i suoi rispondevano andando in aiuto magari a singoli per lo più adolescenti, oggi quel disagio si è allargato “ a bomba” a tutta la società, comprendendola tutta in una accelerazione sempre più progressiva, in una emergenza che non è più solo la droga nella sua infernale evoluzione non solo chimica. Basta pensare al tema sconfinato dell'accoglienza ai migranti che esplode ogni giorno, al disagio giovanile di oggi, innescato dai social e dalle trasformazioni valoriali della società, perfino agli scossoni recenti della pandemia.

Il metodo del Ceis era diverso da quello degli altri. Questo lo percepimmo subito nella battaglia contro quello strumento di morte. Non aveva i sistemi “duri” alla Muccioli e neppure il comunitarismo accogliente a prescindere di Andrea Gallo.

Era come Bianca, più dolce, basato sui principi spirituali fondati nella dottrina del Vangelo, ma non esclusivi in questo, sorretto da una determinazione incrollabile, quella della sua fondatrice.

Davanti a quelle emergenza e a quella forza con Mario Paternostro avevamo deciso di usare le nostre pagine di cronaca per fondere tutti quegli sforzi in una iniziativa editoriale forte, una rubrica settimanale di una pagina o due pagine di giornale, intitolata “Insieme contro la droga”.

Un po' quello che fa oggi Tiziana Oberti nella sua rubrica su Primocanale.

Era un appuntamento di dibattito, suggerimento, racconto di storie, supporti di pareri, al quale partecipavano tutti i protagonisti di quella lotta, con noi cronisti a cercare di fare da megafoni.

Non si può dimenticare in quelle riunioni la presenza forte, spesso la più equilibrata di tutti, di Bianca, l'irruenza di don Andrea, i pareri tecnici-medici di Guelfi e di Iozzia e dei tanti che venivano a darci una mano.

Oggi che ricordiamo il Ceis, non può che essere sottolineato come quella strada impervia, fatta di tanti dolori, di tante morti giovani e disperate, di famiglie che piangono ancora, ma anche di tanta generosità, si sia allargata nel soccorso di oggi, che fronteggia quelle emergenze così più complessive in un mondo tanto diverso. Ma dove la stella di Bianca brilla ancora.

Grazie Bianca.