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di Elisabetta Biancalani

GENOVA-“Ho un ucraino in classe!” è stata l’esclamazione di un ragazzino delle scuole medie che ho incontrato. E preciso subito che mi è parso che l’entusiasmo fosse molto umano, dettato quasi, ho avuto l’impressione, dalla possibilità di poter vivere una fetta di storia mondiale sconvolgente, in modo diretto, attraverso la conoscenza di un pari di età che arriva dal paese in guerra.

Mi ha raccontato che se lo sono trovati in classe l’altra mattina, che con la professoressa di turno hanno cercato di capire da quale paese arrivasse, visto che non spiaccica una parola di italiano nè di inglese. Con il dito ha indicato Kiev su una cartina e da lì in poi è stato tutto un tentativo di comunicare sia attraverso il traduttore sul telefonino di un compagno (lasciato acceso, eccezione, apposta) e sia grazie ad un supplente con origini dell’Est e che quindi parla russo, ma anche grazie a una compagna di classe che, lei pure, parla un po’ di russo.

“È molto simpatico” ha detto la mia fonte, “gli abbiamo regalato due liquirizie e le ha mangiate, ci ha insegnato a dire “nonna” in russo e anche un’altra parola. Durante le lezioni che cosa fa? Gli ho chiesto? “Sta lì e ascolta un po’ aiutato da questo supplente che non c’è tutti i giorni...”.

Da quando si è capito è arrivato con la nonna e forse la mamma e il nonno “che lo aspettavano fuori da scuola”. Lui “ha il green pass ucraino” mi è stato detto, ma i racconti dei bambini bisogna prenderli con le pinze e io non ho avuto modo di verificare il racconto. Ma mi è sembrata una bella storia da condividere. Ora qualcuno potrebbe opporre: “Ma perché li mandano a scuola se non possono capire nulla?”. Diciamo che io apprezzo personalmente invece il tentativo di integrazione dei ragazzi, poi è ovvio che lo Stato si sta organizzando per gestire la cosa al meglio ma almeno, ci si prova. Intanto a toglierli qualche ora da “casa” (tra virgolette perché non si può certo definire casa quella dove alloggiano qui i profughi, potrebbe essere anche un castello ma non sarà mai la “loro Casa” intesa come quella che hanno nel loro paese, dove sono cresciuti, dove vivevano la loro quotidianità prima della fuga).

Essere in mezzo ai coetanei può essere un primo timido tentativo di normalità.

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