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di Stefano Rissetto

Non so chi vincerà le comunali, posso azzardare fin d’ora alcuni dei principali sconfitti: la democrazia rappresentativa, il suffragio universale, naturalmente Genova.

Secondo i dati Primocanale/Tecné, si va verso uno scenario inequivoco quanto mortificante: quasi un avente diritto su due non andrà a votare, quindi il prossimo sindaco avrà l’appoggio pieno di un genovese appena su quattro, contro un sentimento di rigetto o indifferenza degli altri tre. Chiunque prevalga, sarebbe un vincitore incompleto; delegittimato, forse.

Di certo il partito più consistente rischia di essere quello del non voto. Un fenomeno ormai endemico, a qualsiasi livello e qualunque sia il tenore delle consultazioni.

Si è provato a spiegarlo con una disaffezione dovuta a un qualunquismo di ritorno, che però ciclicamente sembra coagularsi invece nella partecipazione polemica, dalla Lega Nord all’Italia dei Valori fino al partito di Grillo, questi ultimi due curiosamente accomunati dalla presenza dietro le quinte dello stesso manager. Non favorisce poi l’afflusso ai seggi la costatazione che ormai dal 2008 gli italiani vanno a votare, scegliendo tra partiti o coalizioni che indicano un potenziale presidente del consiglio, ma poi a Palazzo Chigi si trovano uno che magari nemmeno conoscevano, ma che addirittura non si era neppure candidato: nessun italiano nel 2008 come nel 2013 e nel 2018 era andato a votare pensando che il proprio voto servisse a mandare a guidare il governo Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte e Draghi. Anzi forse non ci pensavano neppure loro.

Si evitino le obiezioni iperformalistiche: in tutti questi casi Costituzione e leggi sono state rispettate, il presidente del consiglio viene nominato dal capo dello Stato e riceve la fiducia delle Camere, può quindi benissimo non essere un parlamentare. Però se restiamo al formalismo allora io che scrivo sono uomo, battezzato e celibe, i soli tre requisiti prescritti dai codici canonici per l’elezione pontificia: quindi se putacaso diventassi Papa sarebbe alla lettera tutto regolare, ma lo sarebbe davvero? No che non lo sarebbe, suvvia.

Di là dal paradosso, può avere un senso l’idea che la fuga dal voto sia conseguenza della svalorizzazione del rito elettorale. Nel pieno della luna di miele con il draghismo, qualche mese fa Paolo Mieli (leggi qui) era arrivato addirittura a proporre, certo per paradosso ma intanto l’aveva buttata lì, di abolire le elezioni, hai visto mai che gli italiani - ossessione ricorrente in ambienti qualificati - votino male?

Ma una simile tesi (la gente non va più a votare perché pensa sia inutile) da sola non basta. Per lo meno a spiegare la desertificazione all’orizzonte a Genova. Ammettiamo pure che questo scenario valga per le elezioni politiche. Però questo è, sarebbe un voto locale. Si tratta di eleggere non un condottiero, ma l’amministratore di un condominio di mezzo milione di abitanti. Inoltre entrambi i candidati principali non hanno una caratterizzazione politica troppo accentuata: il sindaco in carica, sia pure designato da una forza a suo tempo egemone nel campo di appartenenza, si è voluto emancipare nel tempo da questa immatricolazione fino a costituire una propria lista eterodossa, non priva di personaggi che non sarebbe stato sorprendente trovare dalla parte opposta e in taluni casi ne provengono; lo sfidante ha meno remore nell’autoconnotarsi culturalmente, ma sa benissimo che si vince recuperando persuasivamente voti altrui e non galvanizzando chi già lo voterebbe.

Certo, uno che a Genova riuscisse a riportare in cabina elettorale tutti quelli che non vedono per quale motivo andarci, e quindi non ci andranno, vincerebbe al primo turno o quasi. Ma non accadrà: forse perché in città la “tipica accoglienza” ormai viene praticata perfino al proprio interno.

 

 

 

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