Visioni e frasi spezzettate si affacciano di nuovo alla mia mente: l'inverno e il freddo le han portate, o son cattivi sogni solamente. Due anni dopo, le lancette sono inceppate su quel 30 gennaio 2020, una coppia di turisti cinesi positiva al coronavirus in un albergo di Roma e quindi allo Spallanzani. E' il granello di sabbia che scardinerà il pianeta. Il 2 febbraio, a Portofino, si corre la mezza maratona e tra i podisti c'è Mattia Maestri di Codogno, il futuro "paziente 1" in quel Lodigiano e Bergamasco dove la morte secca come la falciatrice a cottimo si porterà via nonni e famiglie intere, vite chiuse in un sacco e restituite in un barattolo. Nella nostra regione il Coronavirus arriverà ufficialmente il 25 febbraio, con Giorgio Zembo (nella foto) un paziente della Spezia (leggi qui) contagiatosi proprio a Codogno, e il focolaio in un hotel di Alassio.
Quelle immagini surreali, arrivate da Wuhan, con la costruzione accelerata di un ospedale di emergenza, diventavano la nostra realtà nel tempo di spazzare via gli esorcismi anche ingenui, come una pasticceria del centro che aveva sfornato i dolcetti a forma di coronavirus, pasta di mandorle e sbaffi di marmellata di fragole. Siamo precipitati in un niente nell'incubo peggiore dalla fine dei bombardamenti alleati e della guerra civile, che molti di noi non avevano vissuto, più cupo perfino degli anni di piombo dove il nemico invisibile tanto invisibile alla fine poi non era e lo avevamo sconfitto.
Era un avversario infinitamente piccolo, smisuratamente più grande di noi e di chi avrebbe dovuto farvi fronte: cominciava la saga delle allocuzioni notturne, dei decreti caudilleschi, dell'immagine che si faceva sostanza mentre in prima linea c'erano medici e infermieri. Era la Milano del Seicento, l'Atene di Tucidide: una babele di voci e di silenzi, le città striate dall'urlo delle ambulanze. E poi la corsa nelle corsie, le mascherine e i caschi e le tute bianche, la confusione degli esperti ognuno con la sua ricetta. E una sera il mondo si china sull'Italia: il Muro del Pianto, la Casa Bianca, le Cascate del Niagara e l'Eliseo si tingono di tricolore. E' il segno che siamo proprio noi l'epicentro del disastro.
Lo specchio vede un viso noto, ma hai sempre quella solita paura che un giorno ti rifletta il vuoto oppure che svanisca la figura. In questi due anni è cambiato tutto fuori e dentro di ognuno di noi. L'insicurezza, l'ansia, la diffidenza. Avevamo creduto che trovarci in guerra ci avrebbe affratellato, ci scopriamo incattiviti e divisi e più fragili. Chiusi in casa alle cinque della sera ci si era ritrovati alla finestra, per una canzone come un'altra. Via via ci venivano tolti gli stadi, i cinematografi, le pizzerie, gli abbracci e i baci e i sorrisi, tutto volato via nel fondo di un terrore che l'avvento dei vaccini non ha trasformato in armistizio, ma nell'incrudelirsi della peggiore delle varianti, quella che ha distrutto gli arcobaleni dell'"andrà tutto bene" appesi ai balconi nei primi giorni di chiusura. Non è andato bene per niente, in Italia il virus si è portato via 146mila persone, praticamente è come se fosse sparita Cagliari. Tutto il resto lo sappiamo, tranne quando finirà e, quando sarà finita, come saremo. Nei giorni che avrai ti ritroverai due anni dopo sempre quella faccia.
IL COMMENTO
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