GENOVA - Un marito apparentemente perfetto, di bell'aspetto, abiti sempre curati, alto e robusto, in pubblico anche dai modi gentili, premuroso, ma in casa, fra le mura domestiche ossessionato dalla gelosia e per questo capace di rendere la vita impossibile alla moglie e di conseguenza e ai due figli, cresciuti con l'angoscia addosso di vedere la mamma quasi prigioniera, soggiogata da quel padre dietro la sua maschera in fondo così insicuro e fragile.
Potrebbe essere questo lo scenario in cui si è consumato il delitto, il parricidio di Pasquale Scalamandrè, 62 anni, autista dei bus Amt appena andato in pensione e ucciso a botte e forse con un mattarello e una statuetta di marmo la sera del dieci agosto del 2020 dai due figli, Alessio e Simone, ovviamente con il suo stesso cognome, Scalamandrè, di 30 e 22 anni. Un omicidio avvenuto nella loro casa di via Garrone, in una delle nuove ed eleganti abitazioni della Valpolcevera, a San Biagio.
La corte di Assise di Genova ha condannato Alessio, 30 anni, e Simone, appena ventiduenne, a 21 e 14 anni per omicidio volontario in concorso, aggravato dal vincolo di parentela.
Il sostituto procuratore Francesco Cardona aveva chiesto una condanna ancora più dura e simile fra i due, 22 anni per il fratello più grande, e 21 anni per Simone.
La sera del delitto davanti alla villetta di via Garrone, fra agenti della squadra mobile e della scientifica, c'era sola una persona, un uomo distrutto, zio dei due ragazzi e cognato della vittima. "Le prime notizie che leggo on line di questa tragedia descrivono Pasquale come un uomo violento, un padre padrone che meritava di essere ucciso, non è così e lo proveremo..." aveva detto al cronista che si era avvicinato con cautela nella penombra.
A distanza di un anno e mezzo si può affermare che i giudici hanno dato ragione a lui, e torto ai tanti ragazzi della Valpolcevera che per stare vicini ai due fratelli imputati hanno creato anche una pagina di Facebook e ad ogni udienza presidiavano il tribunale. "Alessio e Simone sono due bravi ragazzi esasperati dal papà e alla fine sono esplosi" hanno raccontato più volte.
Parole che trovano anche conferma nelle indagini svolte dalla Omicidi della squadra mobile e dai rilievi della scientifica: solo che per gli inquirenti la reazione dei due fratelli, due bravi ragazzi, è stata spropositata.
Dagli atti fra l'altro non risulta che il papà fosse mai stato violento con loro mentre la madre, Laura Di Santo, pur ossessionata dalla gelosia del marito e più volte volte picchiata, non aveva mai riportato ferite da costringerla a farsi medicare al pronto soccorso. "E' stato uno degli errori che ho fatto" riferirà la donna al cronista dopo il delitto.
Di Santo, grazie al centro anti violenza di via Mascherona, nel centro storico, era riuscita a scappare lontano dal marito, rifacendosi una vita in Sardegna, dove accudiva un malato terminale. E' lì che ha appreso dell'omicidio, e da lì è tornata a Genova, per tornare a vivere con i due figli in quella casa di via Garrone da dove era stata costretta a fuggire.
Ma veniamo alla ricostruzione del delitto che ha inchiodato i due fratelli: quella sera il papà torna nella casa a cui non poteva avvicinarsi quando c'era la moglie per cercare di convincerli a revocare la denuncia nei suoi confronti in vista del processo per maltrattamenti scaturito dalla segnalazione della moglie.
Si rivolge soprattutto al più grande, Alessio, ed è con lui che divampa la prima discussione nel soggiorno, mentre Simone è in cucina: i ragazzi poi aggrediscono insieme il padre, con pugni e calci, con un mattarello, una statua di marmo, si accaniscono anche quando l'uomo è già esanime sul divano, lo finiscono, lo massacrano, come presi da un raptus, che però difficilmente assale due persone nello stesso momento. Nessuno dei due riesce a fermarsi, a capire che se si fossero fermati al massimo avrebbero preso una denuncia per lesioni.
Quando nella casa arrivano i medici del 118 e i poliziotti il soggiorno sembra un mattatoio, c'era sangue ovunque: "Sono stato io" dice Alessio, il più grande, che si assume tutta la responsabilità, come un padre più che come un fratello maggiore di una famiglia che è vissuta sempre nel terrore di quell'uomo ormai immobile e inoffensivo in un lago di sangue, un padre padrone forse, di certo un uomo dalla doppia personalità, come racconterà poi la moglie squassata dal dolore dalla Sardegna al cronista che la intercetta il giorno dopo al telefono.
Sono le indagini della mobile, della scientifica e le perizie dei medici legali a non lasciare scampo al pubblico ministero Francesco Cardona, che non può che chiedere la condanna dei due ragazzi, sfortunati ed innocenti vittime anch'essi, questo è sicuro.
I due raccontano di essersi difesi perché aggrediti, ma il cadavere del papà è massacrato, mentre sul loro corpo non ci sono ferite, le uniche sono sulle nocche delle mani: la riprova della furia con cui hanno colpito e ucciso il padre.
A chiedere la condanna dei due fratelli e un risarcimento come parti civili in questa brutta storia è stata la famiglia della vittima, che è poi anche la famiglia degli assassini, la madre di Pasquale, nonna di Alessio e Simone, le due sorelle e i tre nipoti della vittima, zie e cugini degli assassini. Uno strazio innaturale, insomma, da qualunque parte lo si osservi, come ammettono gli avvocati delle parti civili Irene Rebora, Stefano Bertone e Greta Oliver.
Il giudice, come da prassi, con la condanna ha disposto anche un risarcimento provvisionale, immediato, dovuto dai condannati alle parti civili, in tutto 230 mila euro: "Noi non potevamo assistere a tutto il fango gettato su Pasquale, abbiamo agito per riabilitare la sua memoria" hanno detto i familiari dell'uomo mai come in questa brutta storia vittoriosi davanti ai giudici ma lo stesso sconfitti.
IL COMMENTO
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